Storie, attualità e archeologia dal Medio Oriente e dal mondo della Bibbia

Sapori e profumi della terra d’Israele

Elena Lea Bartolini De Angeli
17 luglio 2012
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Chi ha avuto modo di visitare Israele, soprattutto viaggiando fra la Galilea la Giudea e il deserto del Neghev, sicuramente ha potuto gustare la varietà della sua cucina e dei suoi piatti tipici, che riflette sia la dimensione multietnica di una società formatasi attraverso l’immigrazione di ebrei provenienti da luoghi diversi che le dinamiche del farsi del Paese. La tipica colazione che viene offerta dalle grandi catene alberghiere dell’Israele moderno e apprezzata dai turisti di ogni nazionalità, è la rivisitazione di quella del kibbutz con pane, olive, verdura e formaggio – che costituiva il pasto principale prima del duro lavoro nei campi nel periodo dei «pionieri» che hanno permesso la rinascita dello Stato – diventata oggi ancor più abbondante e varia con l’aggiunta di uova, aringhe, frutta, e dolci; il ghefilte fish, le «polpette di pesce» con salsa dolce o piccante e lo shnitzel, il «petto di pollo impanato» sono tipici degli ebrei dell’Europa orientale, mentre il cous-cous, nelle sue diverse varianti, è tipico delle comunità del Nord Africa; per non parlare poi dello chummus, la «crema di ceci e sesamo» o delle falafel, le polpette di ceci servite dentro la pita, il «pane arabo» con verdure e aggiunta di salse piccanti che sono diventate il simbolo del Paese, e dell’insalata di Gerusalemme con pomodori e cetrioli tagliati a dadini. Tutte specialità che la cucina israeliana ha fatto proprie da altre culture, e che ha rielaborato personalizzandole, come nel caso dell’aggiunta del sesamo nell’impanatura dello shnitzel. E gli esempi al riguardo sono molti.

Vale la pena però ricordare che, dietro tale varietà che rende gustose le pause di chi viaggia visitando il Paese, si cela una storia dai sapori talvolta amari. Il processo immigratorio, avvenuto attraverso ondate successive e tuttora in corso in virtù della Legge del ritorno, che permette a tutti gli ebrei della diaspora che lo desiderano di diventare cittadini israeliani, ha registrato arrivi di comunità ebraiche in periodi difficili, come ad esempio subito dopo la seconda guerra mondiale, che ha visto l’immigrazione di molti ebrei sopravvissuti alla Shoah nazista in un momento di grave difficoltà economica per i «pionieri» che avevano fondato la società del kibbutz, la «comune» agricola sionista, periodo che si è protratto fino ai primi anni dopo la nascita dello Stato di Israele. Vennero allora imposte le norme della Tzen‘a, «sobrietà», in base alle quali il cibo a disposizione veniva distribuito in maniera che potesse bastare per tutti, eliminando le differenze sociali anche attraverso la tavola. Gli appartamenti erano piccoli e condivisi da più famiglie, non esistevano frigoriferi ma soltanto contenitori del ghiaccio, e si cucinava in pentole chiamate sirp’ele, «delle meraviglie», ovvero in casseruole che mantenevano il calore a lungo risparmiando sul prezioso gas.

Un esempio significativo di come trasformare in dinamiche sociali i valori biblici della condivisione e della giustizia in un momento di difficoltà del Paese. Ciò non ha comunque impedito la conservazione delle ricette tipiche e oggi, che la situazione fortunatamente è diversa, è possibile gustare specialità di varia provenienza dove gli ingredienti «biblici» – come melograni, miele e issopo – sono riproposti con una cucina fusion che trasforma antico e nuovo, etnico e tradizionale in ricette «israeliane»: una cucina creativa dai sapori multiformi come molti sono i modi per esprimere l’appartenenza al popolo di Israele.

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