È da quando sono arrivato in Turchia nove anni fa che aspettavo l’occasione per visitare la Cappadocia. L’avevo attraversata velocemente un quarto di secolo fa ma, trasferitomi qui, speravo di soddisfare la mia sete di conoscere ancora di più questa terra di cristiani, di monaci, di Padri della Chiesa i quali, assieme alla generazione degli apostoli, hanno fatto di questa terra la «terra santa» della Chiesa. Basilio, Gregorio Nazianzeno e Gregorio di Nissa risuonano infatti come nostri antenati nella fede accanto a Giovanni e Maria, Pietro e Paolo, Barnaba e Filippo, a Policarpo e a Ireneo.
Cominciavo a dirmi che probabilmente avrei visto tutto ciò dal cielo, ma la «conferenza dei religiosi» di Turchia ha avuto di recente l’eccellente idea di organizzare un breve giro in questa regione. Abbiamo percorso paesaggi strabilianti e unici; siamo penetrati in uno di quei villaggi sotterranei che fungevano da rifugio, nei tempi difficili, a quei gruppi armati che non facevano prigionieri; abbiamo visto le famose chiese scavate nella roccia e le loro pitture millenarie, talvolta splendenti, talvolta morenti sotto le ingiurie del tempo o la stupidità dei viaggiatori che le rovinavano con le loro firme. Poco prima di questo pellegrinaggio, un membro di spicco dell’Ordine dei Frati minori aveva pensato bene di dire che oggi la Chiesa, in questo Paese, è composta di pellegrini esterni, e che avremmo dovuto orientare la nostra pastorale verso queste persone e favorire l’insediarsi di un’industria alberghiera cristiana. Devo ringraziare questo responsabile per avermi spinto, secondo la raccomandazione dell’apostolo Pietro, «a rendere conto della speranza che è in noi».
Siamo noi la Chiesa locale, perché la Turchia non è un museo di antichità cristiane, né tantomeno un santuario. Siamo un granello di polvere della Chiesa… come essa stessa era al tempo degli apostoli. Siamo noi la Chiesa, noi che rispondiamo alla chiamata del Padre nel Figlio a vivere tra la gente di questo Paese, cristiani e non. Siamo noi la Chiesa, noi che cerchiamo di testimoniare qui il Vangelo d’amore universale. Siamo noi la Chiesa, noi che attraverso la nostra vita vogliamo mostrare, a tutti gli uomini e donne che cercano un senso alla loro esistenza nell’agnosticismo o in un’altra religione, che Gesù è la nostra felicità. Siamo noi la Chiesa, noi che tra i cristiani e i catecumeni, ma anche tra i nostri fratelli e sorelle nell’umanità, cerchiamo, scopriamo e lodiamo il lavoro dello Spirito che, allo stesso tempo, ci precede e ci accompagna nell’avventura fraterna che vogliamo vivere con loro. Come Teresa di Lisieux voleva essere l’amore nel cuore della Chiesa, noi vogliamo essere la Chiesa-Amore nel cuore delle religioni.
In questo breve pellegrinaggio, era con noi il vescovo armeno-cattolico. Abbiamo concluso il viaggio con una Messa armena in una chiesa che apparentemente non ha più alcuna utilità in questa città chiamata oggi Kaiseri, là dove visse e soffrì quel san Gregorio l’Illuminatore fondatore della Chiesa armena ben prima dell’imperatore Costantino.
Fra Ruben, il superiore della nostra fraternità di Istanbul, era la guida spirituale del gruppo. Ci ha chiesto di non sprofondare nella nostalgia, fonte di amarezza, ma di immergerci piuttosto nella fede dei nostri antenati che hanno vissuto e sofferto su questa terra. E ci ha invitato ad essere più entusiasti per la nostra missione oggi.
Mi preoccupano coloro che si mettono in cammino sui passi di san Paolo o dei cristiani di Cappadocia e poi ripartono senza incontrare veramente la Chiesa di oggi. Ma non smettono di lamentarsi o di mormorare contro chi ha preso il posto del cristianesimo. Dio ci chiama a un’altra visione.
(traduzione di R. Orlandi)