«Come viene percepita in Spagna la lunga epoca araba in Andalusia?». La domanda sorge spontanea sulla bocca di un docente tunisino durante una rilassante cena conclusiva al convegno annuale di Oasis, la Fondazione internazionale che promuove l’incontro tra Oriente e Occidente. Davanti a lui siede, per puro caso, un professore spagnolo, mentre il tutto si svolge nella suggestiva località di Sidi Bou Said, una perfetta riproduzione tunisina dei piccoli borghi medievali andalusi, con le tipiche case bianche e azzurre.
Più della risposta articolata dell’amico spagnolo, mi ha sorpreso la domanda. Raramente gli arabi, in fatto di storia, si interessano di come la pensino gli altri. Nei «miti fondatori» della storiografia araba, infatti, è radicata l’idea che la rapida espansione arabo-islamica nei VII e VIII secolo non fosse altro che una generosa corsa a liberare i popoli del Mediterraneo e del Vicino Oriente dai loro antichi oppressori. Una lettura a senso unico che rende quasi impossibile ogni rivisitazione critica degli eventi, distaccata dal politically correct.
Avevo provato lo stesso stupore, pochi mesi prima, trovando sugli scaffali di una libreria di Beirut Le conquiste arabe nella narrazione dei vinti (questo il titolo del libro in arabo – ndr). L’autore Hussam Itani precisa nell’introduzione che il suo obiettivo non è quello di cercare «la verità storica», magari inaccessibile, né di biasimare oppure fare l’elogio delle conquiste davanti al lettore contemporaneo, bensì di presentare quanto hanno scritto i cronisti bizantini, persiani, armeni ecc. per aiutare i lettori arabi e musulmani a liberarsi di una «lettura astorica e acritica del proprio passato, proiettata anche sul presente».
«Non guasta per niente all’Islam e ai musulmani – concludeva Itani – vedere la loro immagine riflessa negli specchi altrui».
Un simile approccio culturale, se coltivato, potrebbe costituire un utile strumento per gettare le basi di nuove relazioni tra Oriente e Occidente, tra cristianesimo e Islam, in questa fase di transizione che sta attraversando il mondo arabo.
Al convegno di Tunisi, il cardinale di Milano Angelo Scola ha citato un’ardita affermazione del giornalista libanese Samir Kassir («Esiste la possibilità di fare lo stesso identico discorso sugli arabi e per gli arabi») per ribadire, per analogia, che non è necessario tenere due discorsi separati, uno per i musulmani e l’altro per i cristiani. L’arcivescovo di Milano spiegava che «le domande con cui i fedeli delle due religioni si trovano a fare i conti nella vita, personale e comunitaria, di tutti i giorni sono sufficientemente condivise per permettere una comprensione reciproca». A condizione, precisava Scola, che ve ne siano l’intenzione e gli opportuni strumenti culturali.
«Allargare l’orizzonte di riferimento degli uni e degli altri», è stato lo slogan più volte ripetuto a Tunisi. E che ha avuto nel discorso del presidente tunisino davanti a decine di esperti cristiani e musulmani un’ulteriore conferma. Moncef Marzouki vi ha sottolineato, senza esitazione né ambiguità, la necessità di «difendere la libertà di coscienza perché essa è il fondamento di un tipo di appartenenza moderna che è la cittadinanza» e che tutti i tunisini sono invitati a partecipare alla costruzione di una nuova Tunisia, a prescindere dalla propria appartenenza religiosa: musulmani, cristiani, ebrei o atei. Inshallah!