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Il Diritto come argine al male

Daniele Civettini
25 luglio 2012
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Questo libro, intitolato L'esperienza del male, è una conversazione tra il giurista Antonio Cassese e il giornalista Giorgio Acquaviva. I due affrontano temi come il genocidio, la tortura, il terrorismo, la giustizia dei vincitori e i tribunali internazionali, la questione israelo-palestinese... Cassese, scomparso poco dopo l'uscita del volume, illumina la lotta eterna tra le ragioni della Realpolitik e l’utopia di una giustizia che trascende l’interesse dei singoli soggetti politici.


Dove le tenebre della Storia ricoprono i delitti degli uomini, dove il diritto degli Stati crea una sanguinosa distanza tra i doveri del soldato e i diritti dell’individuo, in tutte le guerre combattute dall’alba dei tempi. Nel sangue versato nell’Ex Jugoslavia, in Ruanda, nel Darfur, nel dramma degli armeni massacrati dai turchi, nelle torture di Guantanamo, giù, fino alla Seconda guerra mondiale e al grande eccidio degli ebrei da parte dei nazisti: è in questo abisso che si pone la domanda su ciò che è giusto e su ciò che è sbagliato.

Cioè, dal punto di vista giuridico e politico, come è stato possibile, e fino a che punto è ancora possibile oggi, giudicare gli Stati belligeranti limitando tramite il diritto internazionale le libertà, quindi i crimini, dello Stato Sovrano, il terribile Leviatano di Hobbes. Per chi scende questo crinale una specie di Virgilio dantesco è Antonio Cassese, un’istituzione del diritto internazionale, già in molte occasioni rappresentante del governo italiano presso l’Onu, primo presidente del Tribunale penale per la ex Jugoslavia e tuttora presidente del tribunale internazionale per il Libano.

Il suo libro, intitolato L’esperienza del male, è una conversazione tenuta su più temi con il giornalista Giorgio Acquaviva: il genocidio, la tortura, il terrorismo, la giustizia dei vincitori e i tribunali internazionali, per citare alcuni punti. Su questo terreno Cassese – scomparso il 22 ottobre 2011, poco tempo dopo l’uscita di questo libro – aiuta il lettore a immergersi nella lotta eterna tra le ragioni della Realpolitik e l’utopia di una giustizia che trascende l’interesse dei singoli soggetti politici, e lo fa tramite la rievocazione dei fatti storici visti sotto la lente d’osservazione privilegiata di un giurista e diplomatico di lungo corso e di vasta cultura, che sa quando dipanare le ragioni di un principio astratto e quando raccontare un retroscena noto solo agli addetti ai lavori.

Spesso Cassese è stato, oltre che spettatore diretto, attore protagonista negli avvenimenti, come la sua lunghissima carriera testimonia. L’esperienza del male non è perciò solo analisi storica e politica dei fatti più sanguinosi del Ventesimo e Ventunesimo secolo, ma soprattutto narrazione personale di proposte, spesso faticose e innovative, spesso osteggiate dalle grandi potenze.

Un’iniziativa nello specifico merita di essere citata a parte, perché rappresenta un inedito e giustamente nel volume fa capitolo a sé. Siamo nel 1987, nel pieno dell’Italia della «Milano da bere», durante una staffetta tra il socialista Bettino Craxi e il democristiano Giovanni Goria al governo del Paese. Dando eco ad un accordo tra Giordania e Palestina del 1985 subito naufragato tra bombe e attentati, Craxi in persona incarica Cassese di dare sostanza giuridica ad un’ipotetica confederazione tra Giordania e Palestina, in cui la Palestina riconosce lo Stato di Israele e accetta la propria smilitarizzazione ottenendo in cambio un primo avvio per un futuro Stato sovrano palestinese svincolato da Israele. Il capitolo 4 contiene la cronaca ravvicinata del fallimento di questa idea, persino più avveniristica oggi di quanto non fosse negli anni Ottanta, e che ebbe come contorno storico il dirottamento dell’Achille Lauro e lo scoppio della prima intifada. È un avvenimento tra gli altri, che peraltro mostra un aspetto meno conosciuto di Craxi e dei suoi tempi; testimonianza del lavorio ininterrotto che ha coinvolto, almeno dalla fine della Seconda guerra mondiale in avanti, personaggi storici di grande spessore politico al fine di trascendere il cinico, spesso miope, realismo della politica estera intesa come semplice equilibrio di forze contrapposte. Per il dovere di alzare lo sguardo oltre la testa del Leviatano.

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