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Daoud Nassar. Uomini, non nemici

Miriam Mezzera
17 luglio 2012
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È una mitezza piena di coraggio quella che traspare dalle parole di Daoud, quando dice: «Non consideriamo l’altro un nemico, ma un essere umano». E la forza di queste parole si comprende a fondo ascoltando la sua storia, fatta di scelte non facili per rimanere nella propria casa, nella propria terra, lottando contro le prevaricazioni. In questo angolo di mondo dove la terra è una coperta troppo corta, che spesso viene conquistata strappandola ai vicini, quella di Daoud Nassar è una storia esemplare di tenacia e di fierezza, che mai sfocia nel rancore ma che lancia invece segnali di speranza.

La collina su cui si trova la fattoria in cui Daoud è cresciuto, e in cui oggi vive con moglie, tre figli e – a seconda del periodo – altri ospiti da tutto il mondo, si trova a una quindicina di chilometri da Betlemme, nel pieno dei Territori palestinesi. Proprietà della sua famiglia da quasi cento anni, da oltre venti questa terra è sottoposta senza tregua a tentativi di esproprio. Oggi è circondata su tutti i lati da insediamenti israeliani, almeno cinque i più ravvicinati: torrette di guardia, muri di recinzione e filo spinato, per evitare ogni intromissione indesiderata. Crescono a velocità strabilianti, grazie a finanziamenti sia governativi che privati, e soprattutto il più delle volte si impongono a scapito dei villaggi o delle proprietà degli abitanti precedenti.

La terra dei padri. Il terreno su cui sorge la fattoria di Daoud, che oggi prende il nome di «Tenda delle Nazioni», fu acquistato da suo nonno nel 1916, quando la Palestina era ancora sotto l’Impero Ottomano. E già il nonno, per mantenere la proprietà su questo appezzamento, lasciò la città di Betlemme e si stabilì qui. Pagando le tasse alla Sublime Porta per il terreno, la sua proprietà venne registrata, e lui sapientemente custodì  con cura tutte le carte. Così crescono su questa collina sia il padre di Daoud che lui e i suoi fratelli. Passano attraverso i molti cambiamenti che interessano il paese, dal mandato britannico alla nascita dello Stato d’Israele, dalla giurisdizione giordana a quella israeliana in territorio palestinese. Ma tutta la famiglia rimane fedelmente legata alla propria terra, come ad una madre da cui non osa separarsi.

Quando nel 1991 gli israeliani vengono a reclamare quel terreno, definendolo «senza proprietario» – strategia che in molti altri casi ha funzionato – trovano qualcosa che non si aspettano. Ricorda Daoud: «Quando i giudici videro le carte che attestavano la proprietà della terra, furono scioccati. E non potendo procedere all’esproprio della terra per vie legali, gli israeliani iniziarono con altri tipi di pressione perché ce ne andassimo». Pressione fisica, vale a dire insediamenti che crescono rapidi e a dismisura tutto intorno, danni alle proprietà, ulivi secolari tagliati… In più alla fattoria di Daoud viene vietato l’accesso all’acqua corrente, all’energia elettrica, al permesso di costruire. A un certo momento, disposti a pagare qualsiasi cifra per comprare l’ultima collina della zona rimasta in mano a una famiglia palestinese, gli israeliani offrono a Daoud anche un assegno in bianco. E la sua risposta è chiara, senza tentennamenti: «La nostra terra è la nostra madre. E la nostra madre non è in vendita».

Contro la violenza. Quali sono a questo punto le opzioni per reagire, per contrastare un modo violento di appropriazione illecita del territorio? Daoud ne individua tre: rispondere alla violenza con la violenza, rifugiarsi nel vittimismo o abbandonare il Paese verso luoghi in cui la vita è, forse, più semplice. «Io ho scelto di non adeguarmi a nessuna di queste vie – afferma però Daoud -. Rifiuto l’odio e la violenza, sono cristiano e non vedo nell’altro un nemico, ma un essere umano esattamente come me. Allo stesso tempo credo che noi palestinesi non siamo autorizzati a rimanere bloccati in un vittimismo sterile, ma dobbiamo invece proporre un’altra visione, una visione alternativa con la quale aprirci agli altri, confrontarci, discutere. In modo pacifico, ma con coraggio. Infine, non biasimo chi è partito ma io preferisco rimanere qui, nella mia terra».

Così Daoud si organizza… Apre la sua fattoria a chiunque voglia andare a trovarlo, siano essi palestinesi, israeliani o internazionali. Installa pannelli solari, cisterne per raccogliere e utilizzare l’acqua piovana, un generatore diesel per l’elettricità. E accoglie tanti volontari da molte parti del mondo, che condividono l’idea di resistenza non-violenta e vengono per dare una mano, o anche solo per supportare l’azione con la loro presenza. «Non chiediamo aiuti economici – spiega Daoud -, perché non vogliamo essere dipendenti da nessuno. Invitiamo a fare gesti che durino nel tempo, che diano speranza per il futuro. Come ad esempio piantare alberi d’ulivo, di cui vedremo i primi frutti tra cinquant’anni, o installare impianti di energia alternativa».

Chi vive qui, circa quindici persone in maniera stabile, ammette che non è facile. Come spiega Amal, che lavora in un ospedale a Betlemme ed è incaricata di portare alla Tenda delle Nazioni le cose che servono dall’esterno: «Bisogna credere fermamente in questa visione, per restare qui. Non è una vita facile, ma alla fine siamo contenti».

Non potendo costruire, ad accogliere i gruppi di volontari sono una sorta di grandi tende attrezzate. Da qui e dalla sua apertura a ogni genere di visitatore deriva il nome di Tenda delle Nazioni. «Qui viene gente da tutto il mondo, a partire da molti palestinesi e israeliani. Questa è un’altra delle finalità della Tenda: aprire spazi di conoscenza, di comunicazione. Quando due si trovano di fronte possono iniziare a vedersi come esseri umani».

Probabilmente non saranno questi piccoli incontri a cambiare la storia, ma è dai gesti concreti che si inizia a costruire la pace, anche laddove sembra impensabile uscire dalla logica del conflitto. Per questo la Tenda delle Nazioni è una via alternativa, che mira alla difesa dei propri diritti ma senza rimanere impigliata nelle logiche dell’odio. Cosa piuttosto rara da queste parti.

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