Come già dieci anni orsono, in occasione dell’assedio, la basilica della Natività, in Betlemme, è tornata per breve tempo nella primavera-estate del 2012 ad essere oggetto di particolare attenzione mediatica e diplomatica, oggetto di vivaci discussioni e perplessità varie. Questa volta però la disputa si è svolta pacificamente, a colpi di dichiarazioni, congratulazioni, deplorazioni e votazioni – non di mitragliatrici e fucili. L’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), ammessa dall’Unesco come Stato membro, ha chiesto il riconoscimento del Santuario della nascita al mondo di Cristo Signore come patrimonio mondiale dell’umanità. Israele si è opposto, e così anche gli Stati Uniti, non nel merito, si capisce, ma perché non credono bene che lo Stato di Palestina sia riconosciuto tale dall’Onu prima che lo sia nel quadro del sospirato trattato di pace che con esso firmerà Israele. Anche le Chiese hanno espresso qualche preoccupazione di fronte ad eventuali intromissioni di soggetti terzi nei loro rapporti con l’Autorità palestinese, e hanno poi ottenuto esplicite garanzie da parte di quest’ultima. Si è trattato comunque di una controversia civile, alle volte aspra, questo sì, ma senza morti né feriti, e senza che la sacralità del Luogo Santo sia mai stata minacciata, ed è stata risolta con una votazione, in sede dell’Unesco, e con incontri e scambi di lettere, non con la forza delle armi.
E chissà se questo nuovo statuto internazionale della Natività non giovi davvero ad allontanare lo spettro di un altro episodio violento in futuro, come sicuramente dovrà essere utile per garantirne l’integrità architettonica e il rispetto, se non del messaggio che proclama, almeno del «vaso» che lo veicola. Pace vuol dire anche questo, la capacità di gestire i conflitti. Non è certo un alto ideale, ma è di gran lunga meglio del contrario, lo scontro sanguinoso sul campo di battaglia. L’Europa, per esempio, lo capì già nel 1648 con la Pace di Westfalia, che mise fine all’ultima grande «guerra di religione» sul continente. Westfalia non riconciliò i protestanti alla Chiesa cattolica né avrebbe mai potuto convincere i cattolici di riconoscere la legittimità teologica della ribellione protestante scattata nel secolo precedente, ma diede delle regole per cui la spaccatura della cristianità dovesse essere vissuta, subita, senza violenze tra gli Stati che si identificavano nell’una o nell’altra confessione.
Così sarebbero oggi anche le democrazie consolidate al loro interno. Spesso i conflitti sembrano endemici, portati avanti con i toni alti, tra cattolici e laici, conservatori e progressisti, sostenitori e oppositori delle più svariate posizioni. Lo Stato democratico non necessariamente concilia le opinioni, non sempre porta al superamento delle polemiche, non opera una sintesi delle vedute, credenze e convinzioni, ma fornisce una cornice per la variopinta scena della vita pubblica, detta e fa osservare le regole perché le contrapposte veemenze non trasbordino, funge da arbitro, non tra le opinioni ma, per così dire, dei comportamenti consentiti nella piazza pubblica. Non è forse eroico o anche solo virtuoso, ma è certamente preferibile allo scontro violento ad oltranza, che poi comunque nulla veramente risolve. Sappiamo apprezzarlo.
Lo sapranno fare le Nazioni del Medio Oriente, quelle che attualmente starebbero per fare per la prima volta, nei fatti o almeno nelle intenzioni, l’esperienza democratica? Speriamo. Gli accadimenti agghiaccianti di cui ci giunge notizia dalla Siria ci spingono ad auspicarlo davvero e ne dimostrano la necessità.