Si va verso le elezioni anticipate in Israele: stando a quanto scrivono in queste ore i siti dei quotidiani di Gerusalemme il primo ministro Benjamin Netanyahu si appresta a giocare la carta del voto. La data più probabile sembra quella del 4 settembre, cioè prima delle festività di Rosh ha Shanà, il capodanno ebraico. Ma perché Netanyahu vuole andare alle urne?
Si va verso le elezioni anticipate in Israele: stando a quanto scrivono in queste ore i siti dei quotidiani di Gerusalemme il primo ministro Benjamin Netanyahu si appresta a giocare la carta del voto. L’annuncio potrebbe arrivare già domenica quando il premier terminerà la shivà – i sette giorni rituali di lutto per la morte del padre, scomparso il 30 aprile a 102 anni d’età. La data più probabile sembra quella del 4 settembre, cioè prima delle festività di Rosh ha Shanà, il capodanno ebraico (che cadrà il 17 settembre).
Perché Netanyahu va al voto? La ragione ufficiale sono i problemi all’interno del suo governo sulla questione della Tal Law, la legge sull’esenzione dal servizio militare per gli haredim – i religiosi ultra-ortodossi – che la Corte suprema israeliana ha dichiarato illegittima in febbraio imponendo al governo di non rinnovarla quando scadrà ad agosto. Solo che nella maggioranza che sostiene Netanyahu le posizioni sono opposte: Yisrael Beitenu, il partito del ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, è da sempre contrario alla Tal Law e ora non ha nessuna intenzione di arretrare. Ma nemmeno i partiti religiosi vogliono cedere. Per cui trovare una mediazione è praticamente impossibile.
Ma questo non è l’unico motivo per cui si va alle elezioni. Sul piatto della bilancia conta anche il fatto che Netanyahu è convinto che il voto anticipato gli convenga. Intanto perché i sondaggi oggi lo danno vincitore con un numero maggiore di deputati rispetto alle elezioni del 2009. Il Likud guadagnerebbe infatti voti ai danni di Kadima, il partito fondato da Sharon che in piena crisi ha appena cambiato leadership: alle primarie l’ex ministro degli esteri Tzipi Livni e uscita sconfitta dall’ex generale Shaul Mofaz. Poi votare presto sarebbe il miglior modo per rendere la vita più difficile al nuovo partito centrista, quello del giornalista televisivo Yair Lapid. Partito che si chiamerà Yesh Atid («C’è un futuro») e che – tanto per scaldare i motori – in queste ore ha presentato una proposta di legge alternativa alla Tal Law per normare l’arruolamento degli haredim nell’esercito.
Ma il motivo più importante che suggerisce a Netanyahu la strada delle elezioni non sta in Israele ma a Washington. Il premier uscente vuole andare al voto prima che a novembre Barack Obama venga (probabilmente) riconfermato alla Casa Bianca. Vuole mettersi al sicuro nel caso che nel secondo mandato – ormai senza più l’assillo della rielezione – il presidente americano dovesse scegliere di nuovo di entrare in collisione con lui (come peraltro già successo tra il 2009 e il 2010).
Sulla carta, dunque, quello di Netanyahu è un piano perfetto: elezioni adesso per uscirne rafforzato. Se non fosse che quattro mesi in Medio Oriente sono comunque un’eternità: non è affatto detto che chi oggi appare estremamente forte lo sia ancora allo stesso modo in settembre. C’è soprattutto un’incognita che pesa: che cosa succederà nelle prossime settimane in Palestina? Molti dei consensi di Netanyahu dipendono dal fatto che in questi anni ha potuto congelare il conflitto in una fase surreale di non negoziato e non scontro. Però il fenomeno nuovo degli scioperi della fame nelle carceri sta infiammando la piazza palestinese. In queste ore Bilal Diab e Thaer Halahla, altri due prigionieri palestinesi in detenzione amministrativa, sono ormai nella fase critica, al 64.mo giorno di astensione dal cibo. E sono saliti complessivamente a quota duemila i detenuti palestinesi che – con tempi diversi – hanno iniziato questa forma di protesta: dicono di volerla portare avanti anche fino alla morte. Nessuno sa davvero fino a dove arriverà quest’intifada delle carceri. Ma di certo ormai non è più l’iniziativa isolata di alcuni detenuti. E non è detto che da qui a settembre questa ondata di proteste resti confinata solo dentro le mura dei penitenziari.
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