Tornano a riaffacciarsi sulla scena israeliana i refusnik politici, ovvero quei giovani ebrei che rifiutano la leva e vanno in carcere per non servire l’esercito israeliano nei Territori occupati palestinesi. Quest’anno, per il momento, sono due: un ragazzo ed una ragazza, che tra qualche settimana saranno condannati alla prigione.
(Milano) – Tornano a riaffacciarsi sulla scena israeliana i refusnik politici, ovvero quei giovani ebrei che rifiutano la leva e vanno in carcere per non servire l’esercito israeliano nei Territori occupati palestinesi. Quest’anno, per il momento, sono due. Un ragazzo ed una ragazza. Non si conoscono tra loro, ma hanno entrambi annunciato pubblicamente il loro rifiuto della naja e tra qualche settimana saranno condannati alla prigione. Lo Stato di Israele non riconosce infatti il diritto all’obiezione di coscienza motivato da ragioni politiche.
Nel Paese, diverse categorie di cittadini sono in realtà esentate dal servizio militare. Ad esempio gli arabi israeliani, che vengono visti con sospetto e considerati spesso una quinta colonna del “nemico palestinese”. O gli ultraortodossi studenti delle yeshivot (scuole religiose) che hanno finora goduto di uno status speciale. O, ancora, i tanti che – come in altri Paesi dove la leva è obbligatoria, riescono ad evitarla adducendo motivi di salute o altre ragioni. Se per quest’ultimi, le autorità militari chiudono un occhio, per i refusnik pacifisti non transigono. L’esercito rappresenta uno dei pilastri della società israeliana. La renitenza laica dichiarata a viso aperto è vista come un tradimento e lo scotto sociale da pagare è altissimo.
Poco importa, tuttavia, alla diciottenne Noam Gur, di Qiryat Motzkin, che ha scritto una lettera aperta per lanciare la sfida: «Rifiuto – ha dichiarato nel testo pubblicato dai mass media locali – di entrare nell’esercito israeliano perché non intendo far parte di un esercito che, fin dalla sua creazione, è stato impegnato nel dominio di un’altra nazione, nel saccheggio e nel terrorismo contro una popolazione civile sotto il suo controllo». Parole che hanno suscitato una diffusa condanna. Dieci anni fa, ai tempi della seconda intifada, il movimento dei refusnik era una realtà importante che riusciva a far sentire la sua voce. Poi il pacifismo ha perso credito tra i giovani israeliani. Negli ultimi due anni, gli obiettori sembravano svaniti nel nulla.
«Annunciare che sono una refusnik, per me è un modo per far sapere alla gente che ancora esistiamo, prima di tutto», afferma Noam. «In secondo luogo, non voglio restare in silenzio. Sento che fin dalle scuole superiori, siamo sempre rimasti in silenzio. Lasciamo che le nostre critiche escano fuori in piccoli circoli. Il mondo non lo sa, i palestinesi non lo sanno. Non so se cambierà qualcosa, ma io posso solo provare. Mi sento meglio con me stessa, sapere che ho provato a compiere anche solo il più piccolo cambiamento».
«Spero di incoraggiare altri a fare lo stesso», afferma, da parte sua, Alon Gurman, un diciannovenne di Tel Aviv . Anche lui rifiuta la leva «per solidarietà con i palestinesi che lottano contro l’occupazione».
I due ragazzi, il prossimo 16 aprile, dovranno presentarsi al centro di reclutamento, dove dichiareranno formalmente il loro rifiuto. Saranno giudicati nel giro di qualche ora e condannati alla prigione, per un periodo di tempo che può andare da una settimana a un mese. Poi dovranno tornare di nuovo al centro di reclutamento. Di nuovo si rifiuteranno e di nuovo verranno condannati.
«Continuerà così fin quando l’esercito non deciderà di smettere», pronostica Noam. Ma lei, nonostante le critiche dei suoi stessi familiari, sembra decisa ad andare avanti. «Non posso partecipare ai crimini che compie l’esercito israeliano», afferma.
«Nelle circostanze attuali l’obiezione di coscienza è ingiustificabile», controbatte Asa Kasher, autore del codice etico dell’esercito israeliano.