Oggi è il 30 marzo, la Giornata della terra per i palestinesi, cioè il giorno per eccellenza delle proteste contro l'occupazione. Da ieri sera l'esercito israeliano è in allerta, soprattutto alle frontiere: si teme che, come l'anno scorso, manifestanti arabi tentino di varcarle in massa, marciando simbolicamente verso Gerusalemme. E in queste ore riecheggia la domanda: sta per cominciare la terza intifada? O forse non è già in atto?
Oggi è il 30 marzo, la Giornata della terra per i palestinesi, cioè il giorno per eccellenza delle proteste contro l’occupazione. Da ieri sera, dunque, l’esercito israeliano è in stato di massima allerta, soprattutto alle frontiere di Israele: si teme infatti che, come accaduto l’anno scorso, dalle alture del Golan, dal Libano o dalla Giordania ci siano manifestanti arabi che tentino di entrare in massa nel territorio israeliano, marciando simbolicamente verso Gerusalemme. E in queste ore, immancabile, riecheggia la domanda che periodicamente si legge sui giornali israeliani: sta per cominciare la terza intifada?
A rendere l’interrogativo ancora più attuale questa volta ci ha pensato Marwan Barghouti, il leader di Fatah nelle carceri israeliane ormai da dieci anni, che nei giorni scorsi ha lanciato un appello alla sospensione di ogni forma di collaborazione con Israele e alla messa in campo di forme di protesta non violenta. Così oggi Haaretz alla vicenda dedica un editoriale dall’eloquente titolo «Ascoltate Marwan Barghouti». Da parte loro, intanto, i coloni hanno pensato bene di festeggiare a modo loro la Giornata della terra a Hebron: dall’altro giorno sono entrati nella Machpela House, una casa che si trova proprio di fianco alla contesissima Tomba dei Patriarchi. Dicono di averla regolarmente comprata dal proprietario arabo. Così, come se fosse una normale operazione immobiliare. Persino il portavoce dell’esercito israeliano, invece, l’ha definita «una mossa irresponsabile» e una «provocazione pericolosa». Però, almeno per il momento, chi si è insediato nella casa resta dentro.
È, dunque, il classico cerino che farà scoppiare l’incendio? Se stessimo alle volte che è stata annunciata sui giornali, saremmo già alla sesta o alla settimana intifada. Io invece ho l’impressione che si fatichi a vedere che, anche nello scontro, il conflitto tra israeliani e palestinesi ha voltato pagina. In un certo senso l’intifada è già cominciata da un pezzo, anche se con un volto decisamente diverso rispetto a quello che abbiamo conosciuto negli anni tra il 2000 e il 2004. È una rivolta che sfida Israele su terreni diversi da quelli del passato: non è la guerra delle pietre o quella degli attentati suicidi, rivelatesi fallimentari per i risultati conseguiti. È la rivolta delle manifestazioni di massa non violente, come quelle che si tengono ogni venerdì nel villaggio di Bil’in. È la rivolta del boicottaggio dei beni israeliani. È la rivolta degli scioperi della fame dei detenuti nelle carceri.
È un’intifada apparentemente a bassa intensità: raramente buca lo schermo dei notiziari internazionali. Ma è un’intifada che sta lasciando un segno profondo, soprattutto nella radicalizzazione delle posizioni all’interno della società palestinese. Nella totale sfiducia rispetto alla possibilità di negoziare un accordo in queste condizioni. E nella promozione di una generazione di leader alternativi rispetto ai volti di Fatah e Hamas che siamo abituati a conoscere.
L’aspetto forse più importante, però, è che – anche se in maniera un po’ nascosta – questa rivolta non violenta i primi risultati li sta ottenendo. La notizia del giorno è che dopo Khader Adnan anche Hana Shalabi, la seconda detenuta protagonista dello sciopero della fame nelle carceri, dopo 43 giorni senza cibo sembra avere piegato le autorità israeliane. C’è infatti un accordo che prevede la sua liberazione dalla detenzione amministrativa, anche se con la condizione che per tre anni risieda a Gaza e non metta piede in Cisgiordania. Messa alle strette dalla possibilità che un prigioniero detenuto senza processo muoia nelle sue carceri, dunque, per la seconda volta in poche settimane Israele ha accettato di scendere a patti. E la protesta non è finita: sono un’altra trentina i detenuti palestinesi in sciopero della fame e alcuni si avvicinano ormai al trentesimo giorno.
Vittorie solo simboliche? È possibile. Ma se fosse il segno che in Palestina si è capito sul serio che certi gesti non violenti possono fare molto più male a Israele di un attentato suicida, forse l’intifada che non si vede alla fine potrebbe anche rivelarsi la più efficace.
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