Il recente suicidio di una giovane etiope ottiene l'attenzione dei media libanesi e fa aprire gli occhi sulla situazione di grave disagio in cui versano molto spesso le donne immigrate impiegate come domestiche. Sono molti nei Paesi arabi gli abusi e i maltrattamenti che avvengono ogni giorno. Consolati e governi in allarme.
(Milano/c.g.) – Un video choc fa aprire gli occhi alla società civile libanese sulle violenze verso le donne straniere al servizio come domestiche. Giorni fa, sui giornali libanesi campeggiava la notizia del suicidio di Alem Dechasa, un’immigrata etiope di 33 anni priva di documenti regolari, arrivata tramite agenzia tre mesi fa in Libano, via Sudan. Alem si sarebbe uccisa di notte, impiccandosi con le lenzuola del suo letto nel reparto psichiatrico di un ospedale cittadino.
La tragedia di Alem è tanto più eclatante per il fatto che la settimana precedente la sua morte, la televisione libanese Lbci aveva mandato in onda un video girato da un passante di fronte al consolato generale d’Etiopia a Beirut. Nel video, una giovane donna piangeva riversa a terra, chiedendo aiuto invano. Un uomo, poi identificato dalla polizia, la sollevava di forza, strattonandola e trascinandola con violenza per poi caricarla senza alcun riguardo su un’automobile. Quella donna era appunto Alem e adesso il video con la sua disperata richiesta d’aiuto, suona come l’annuncio del tragico epilogo della sua vita.
La notizia ha suscitato grande clamore in Etiopia perché ha messo in luce come rischiano di essere trattate le molte connazionali che lavorano come domestiche in Libano. Il consolato etiope a Beirut sta seguendo il caso dal punto di vista legale e ha denunciato l’uomo, tale Ali Mahfouz, interrogato e rilasciato dalla polizia.
La tragica vicenda svela una delle emergenze sociali del Paese dei cedri, dove il 75 per cento degli immigrati sono donne. La condizione dei lavoratori domestici del Paese è uno dei problemi sociali a cui si dedica la Caritas locale. «Trovano lavoro nelle case, per fare le pulizie, e la loro è la condizione peggiore – spiega Isabelle Saadé Feghali, coordinatrice dell’ufficio Migranti della Caritas -; infatti rimangono spesso vittime di abusi». Le immigrate partono dal proprio Paese convinte di avere un contratto come insegnanti o infermiere. Sbarcate a Beirut si rendono conto di dover lavorare in famiglia. Spesso viene loro sequestrato il passaporto, gli stipendi non vengono pagati puntualmente, non hanno una stanza propria in cui vivere e cibo e medicine non sono un diritto acquisito. Per non parlare di maltrattamenti e violenze a cui a volte sono soggette.
«Molte ragazze, quando non ce la fanno più, scappano e ci chiedono aiuto – spiega Isabelle –. Ma è difficile far valere i loro diritti». Per questo Caritas, da diversi anni, si sta impegnando per trovare una soluzione: nel 2005 ha promosso un incontro con alcuni ministeri per proporre la questione. Da quell’incontro è nato un comitato con il compito di formulare una nuova proposta di legge. Nel 2011, finalmente, il nuovo testo è stato presentato al governo. «La legge prevede alcuni grandi miglioramenti – spiega Joseph Aoun, avvocato dell’ufficio legale della Caritas -. Ad esempio, il diritto al riposo notturno di almeno nove ore, a un posto non promiscuo dove dormire, a ricevere puntualmente il proprio salario e ad avere almeno un giorno di riposo settimanale. Oltre, naturalmente, all’obbligo del datore di lavoro di procurare un regolare permesso di soggiorno alla domestica. Potrebbero sembrare diritti scontati ma ancora non lo sono; quando saranno garantiti, sarà una grande conquista».
La condizione delle immigrate è grave anche negli altri Paesi del Medio Oriente. Le Filippine dal 2008 al 2012 hanno bloccato l’immigrazione dei propri cittadini verso la Giordania, perché consideravano le condizioni di lavoro dei domestici inadeguate e insicure. A febbraio, è stato finalmente firmato un protocollo d’intesa tra i governi di Manila e Amman per riaprire il flusso di migranti. Ma solo pochi giorni dopo, Mario Antonio, diplomatico dell’ambasciata filippina di Amman, ha affermato che il governo filippino potrebbe tornare sui suoi passi se non cesseranno le violenze fisiche nei confronti delle domestiche: sono 63 oggi le ragazze filippine che, in fuga da violenze e abusi dei loro datori di lavoro, trovano rifugio nell’ambasciata filippina di Amman.
La Commissione per i lavoratori emigrati del governo filippino ha chiesto di recente che anche l’Arabia Saudita sia depennata dalla lista dei Paesi in cui è possibile emigrare, vista la frequenza con cui le donne filippine sono abusate e maltrattate dai loro datori di lavoro.
La scelta disperata del suicidio da parte degli immigrati che vivono nei Paesi arabi è purtroppo comune. Secondo l’agenzia d’informazione Mena, il console generale indiano a Dubai, Sanjai Verma, ha affermato che ben 73 suoi concittadini hanno commesso suicidio nel 2011 negli Emirati. Nel 2010 si erano registratati 110 casi. La prima causa di suicidio tra immigrati indiani sarebbe l’impossibilità di restituire gli ingenti prestiti contratti per poter partire.