La minaccia maggiore al futuro della rivoluzione di piazza Tahrir non viene dai salafiti, ma dall’esercito: «Sono i militari e non gli islamisti i veri controrivoluzionari» dice l’attivista egiziana Shahira Abouellail in un colloquio a margine di un convegno svoltosi il primo marzo a Torino per iniziativa del Cipmo e di Paralleli.
(Torino) – La minaccia maggiore al futuro della rivoluzione di piazza Tahrir non viene dai salafiti ma dall’esercito: «Sono i militari e non gli islamisti i veri contro-rivoluzionari», attacca l’attivista egiziana Shahira Abouellail in un colloquio a margine del convegno A un anno dalla Primavera araba: la transizione difficile, organizzato il primo marzo al Circolo dei lettori di Torino dal Centro per la pace in Medio Oriente (Cipmo) e da Paralleli – Istituto euro-mediterraneo per il Nord-Ovest.
Psicologa di formazione, 32 anni, con il suo inglese impeccabile forgiato dai viaggi negli Stati Uniti e dalla laurea all’American University del Cairo, la Abouellail sfata uno degli stereotipi che sulla sponda nord del Mediterraneo impazzano sull’ascesa dell’Islam politico in Egitto: «Non è vero che i diritti delle donne non sono mai stati così tanto sotto minaccia: il movimento delle donne è fortissimo e l’eventuale peso che gli estremisti possono avere per limitarne i diritti è un’esagerazione dell’Occidente. Niente potrà ricacciare le donne in casa. Il problema vero è metter mano alla povertà estrema in cui vive la maggior parte degli egiziani, portare l’acqua potabile e l’assistenza sanitaria a tutti e, sì, anche fare piazza pulita di tutti quelli collusi con il regime. Il pericolo maggiore non viene dagli islamisti, ma dal vecchio regime che vuole sopravvivere attraverso l’esercito, attraverso il peso che i militari hanno nell’economia e nella repressione del dissenso. È dai militari che vengono le principali spinte controrivoluzionarie: gli arresti arbitrari di chi chiede di passare il potere alle autorità civili, i sequestri, i processi sommari, le torture in carcere».
Giubbotto jeans, scarponi imbottiti che spuntano fuori da un’ampia tunica rosa e lilla, i capelli corvini lasciati liberi sulle spalle, la Abouellail è un’esponente di spicco della nuova generazione colta e padrona della tecnologia che con le sue proteste al Cairo, all’inizio del 2011, ha rovesciato un regime trentennale. «Fino ad allora mi occupavo di politiche educative, collaboravo con alcune scuole. Poi è venuto il 25 gennaio, e da allora la mia vita è cambiata: non ho più abbandonato la piazza», racconta. Oggi è portavoce del gruppo No Military Trials for Civilians (No ai processi militari per i civili) e documenta con il suo seguitissimo blog e con i video postati su Youtube le spinte che stanno dirottando il processo di democratizzazione che è stato messo in moto.
«Non ho un incarico politico: quel che faccio lo faccio su basi volontarie. Il gruppo – spiega – è nato subito dopo la cacciata del presidente Mubarak, quando sono iniziati i pestaggi da parte dell’esercito, gli arresti, le scariche elettriche solo perché chiedevamo che venissero rimossi e processati tutti quelli che per trent’anni erano stati implicati con il regime. Ho visto con i miei occhi i soldati picchiare un giovane senza sosta: non aveva opposto resistenza ma loro continuavano a riempirlo di calci e pugni, l’hanno caricato sulle loro jeep senza che nessuno di noi potesse opporsi. Ed è così che siamo venuti a sapere che questi giovani venivano portati nelle basi militari e processati senza avvocato e senza che la famiglia sapesse dove fossero. Questa specie di Corte marziale fa dei processi farsa, senza testimoni, viene inventata una condanna a cinque anni di reclusione magari nella cucina della caserma… Così, con alcune mie amiche, abbiamo fondato il gruppo No Military Trials for Civilians: il nostro obiettivo è sensibilizzare il più possibile l’opinione pubblica».
La Abouellail racconta come «il punto di svolta» della Rivoluzione e il «salto di qualità» del suo movimento rechi la data del 9 marzo 2011. «Non potrò mai dimenticare quel giorno. La marcia che stavamo facendo è stata interrotta in modo violento dall’esercito, siamo stati portati al Museo egizio, l’ara della patria per gli egiziani, tempio della nostra storia e della nostra cultura. Ed è lì che molti di noi sono stati torturati per ore, picchiati a calci e pugni sul volto. Le donne sono state denudate e sottoposte al test di verginità per dissuaderle dal continuare a protestare. Questo è qualcosa di ancora più agghiacciante della tortura per una donna egiziana: provate a pensare cosa può voler dire essere portata in una stanza con 15 uomini, con le finestre e le porte aperte, essere costretta a spogliarsi, con uno di questi soldati che ti infila le mani nelle parti intime per provare che sei “una prostituta”, perché questo è l’appellativo con cui l’esercito chiama le donne di piazza Tahrir: e l’accusa con cui vengono portate nelle caserme è la loro “promiscuità”. Il giorno dopo abbiamo organizzato una conferenza stampa con due delle ragazze che avevano subito questo trattamento, e anche quell’incontro è stata interrotto dall’esercito».
La Abouellail parla come un fiume in piena del «dolore puro, della morte e disumanizzazione» che gli egiziani stanno sperimentando per le violenze perpetrate dai militari. «Ho visto con i miei occhi i carri armati passare sopra gli studenti e poi ripassarci ancora e ancora. Ho visto i manifestanti colpiti alle tempie, al volto e cadere a terra morti, ho organizzato io stessa le conferenze con quelli che sono sopravvissuti alle torture nelle carceri… Come si fa a dire che questi non sono crimini contro l’umanità? E quelli che li compiono non sono né i Fratelli musulmani né i salafiti, sono i militari. Se abbiamo paura? Il fatto è che non abbiamo scelta: o li combattiamo noi, il popolo, o nessuno lo farà al posto nostro, e vivremo sotto un’altra dittatura per chissà quanti anni ancora».
L’attivista si dice convinta che «i militari guidano la controrivoluzione e i salafiti sono loro complici». Inoltre «ci sono parecchie prove dei brogli con cui gli islamisti hanno vinto le elezioni». «Certamente i Fratelli musulmani avrebbero vinto, ma non con le percentuali del 47 per cento come si è visto. Ma continuo a sperare perché so che già molta gente si è pentita per aver votato per loro». A provocare questo pentimento, dice, è la «strana alleanza» che i Fratelli musulmani e i salafiti stanno instaurando con l’esercito, che a suo avviso non è mai stato realmente dalla parte del popolo di piazza Tahrir.
All’obiezione che se i militari avessero davvero difeso il regime l’Egitto avrebbe vissuto la stessa tragedia della Siria, l’attivista replica così: «La verità è che l’esercito ha sacrificato Mubarak per salvare se stesso. Ma non ha mai realmente appoggiato il popolo: il giorno della Campagna dei cammelli ho visto i soldati aprire il varco ai cammelli, i manifestanti cadere a terra morti per le sprangate. L’esercito non ha mai smesso di reprimere il dissenso e non cederà mai il potere alle autorità civili, a meno che non scoppi un’altra rivoluzione. Controllano il 30-40 per cento dell’economia: in queste condizioni non riusciremo a costruire la democrazia per cui abbiamo lottato».
Abituata alle luci della ribalta virtuale assicurata dai social network, Abouellail resta però consapevole di far parte di un’élite. «Internet ci ha dato una libertà di parola e di scambio che non abbiamo mai conosciuto: ancora oggi non ci sono in Egitto televisioni o giornali veramente liberi. Ci ha anche salvato dalla depressione, perché almeno nella scrittura possiamo scaricare lo stress post-traumatico che abbiamo vissuto in questi mesi. In alcuni giorni il mio blog ha avuto 100 mila visitatori: così possiamo far sapere al mondo quel che sta accadendo. Siamo però anche consapevoli che più di un terzo della popolazione egiziana è analfabeta».
Per questo oggi Shahira viaggia come può nelle campagne più lontane dal Cairo e dai grandi centri urbani, cercando di sensibilizzare la popolazione su quello che sta avvenendo. «I poveri in Egitto hanno più ragione degli altri di manifestare. Stiamo parlando di 50-60 milioni di persone: se decidessero di far partire una rivolta non li fermerebbe nessuno». Il suo è un impegno a un doppio livello: di giorno a contatto con la gente che va coinvolta nella lotta per il cambiamento, di notte dietro il pc per «comunicare al mondo» quel che sta avvenendo. «Continuerò a tenervi informati: Stay tuned!».