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Guerra e pace in un «Libano minore»

Carlo Giorgi
20 febbraio 2012
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Guerra e pace in un «Libano minore»

Si ride, si piange e si esce dal cinema con un salutare sorriso amaro, guardano il film E ora dove andiamo?, della regista e attrice libanese Nadine Labaki. Il film racconta la storia travagliata di un piccolo villaggio libanese in bilico - come tutto il Paese dei Cedri - tra guerra e pace, odio fratricida e amore fraterno, furia sanguinaria degli uomini e desiderio di pace delle donne.


Si ride, si piange e si esce dal cinema con un salutare sorriso amaro, guardano il film E ora dove andiamo?, della regista e attrice libanese Nadine Labaki (autrice tra l’altro anche del film Caramel presentato nel 2007 al festival di Cannes). La pellicola racconta, con grazia tutta femminile, la storia travagliata di un piccolo villaggio libanese, a cavallo del fatidico capodanno del 2000; un villaggio in bilico – come tutto il Paese dei Cedri – tra guerra e pace, odio fratricida e amore fraterno, furia sanguinaria degli uomini e desiderio di pace delle donne.

Grazie all’intraprendenza di due ragazzi del villaggio – è questo lo spunto da cui parte la storia –, il sindaco riesce a installare in cima alla collina un’antenna parabolica a cui viene collegata la prima televisione del villaggio. Per la piccola comunità si tratta di un vero evento! Finalmente ci si può collegare con il mondo esterno, è possibile divertirsi e non pensare solo ai morti per i quali si porta ancora il lutto. Ma guardare la televisione significa anche ascoltare il notiziario, che porta nel piccolo pacifico paese notizie del mondo reale e anche della guerra civile che imperversa intorno, e che arriva a provocare un’irrazionale ripresa del conflitto tra le famiglie del paese, divise solo dalla religione.

Il lungometraggio racconta le peripezie di un gruppo di donne, cristiane e musulmane, stanche di portare il lutto per la follia degli uomini, di versare lacrime per mariti e figli; pronte però anche ad allearsi, disposte a tutto (con la complicità del parroco e dell’imam) pur di disarmare i propri uomini e impedire che l’odio continui a mietere vittime inutilmente.

La narrazione di Nadine Labaki è difficilmente classificabile: per lunghi tratti si propone come una commedia leggera, ricca di passaggi di puro divertimento e personaggi che incarnano sapientemente stereotipi mediorientali (la matrona musulmana, il piccolo sindaco che si crede un capo di Stato, il contadino che piange la morte di una sua capra, come di una figlia); talvolta si trasforma in musical, con canzoni contagiose e coreografie originali.

Ma nel profondo l’intera pellicola è attraversata da un filo rosso, quello del sangue sparso tra fratelli, che la rende nel modo più autentico un ottimo film drammatico: comicità e musica, mai stonati, sono solo un modo per rendere meno amaro il racconto della tragedia senza fine di un popolo, quello libanese, dilaniato da una guerra civile che, salvo una conversione sincera, sembra poter riaffiorare – questo l’avvertimento della Labaki – da un momento all’altro.

Nella sua unicità il film ricorda capolavori surreali come Train de vie (1998) di Radu Mihaileanu, o La vita è bella (1997), di Roberto Benigni. Opere che riescono a far ridere della follia umana, alimentando però la venerazione per le vittime innocenti e il desiderio più sincero della pace.

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