A metà gennaio oltre mille falasha (gli ebrei di origine etiope) hanno manifestato davanti al parlamento israeliano contro episodi di discriminazione che sempre più colpiscono questa minoranza. Oggi sono circa 130 mila gli ebrei di origine etiope residenti in Israele. Cittadini di diritto, ebrei le cui radici affondano nella notte dei tempi.
(Milano/g.c.) – Anche Hagai e Daliya Sherman, con il piccolo Barak al collo, hanno preso parte alla manifestazione che a metà gennaio ha portato oltre mille falasha (gli ebrei di origine etiope) a manifestare davanti alla Knesset, il parlamento israeliano, contro episodi di discriminazione che sempre più colpiscono questa minoranza. La protesta è montata dopo alcuni fatti accaduti a Kiryat Malachi, dove proprietari di case israeliani si sono rifiutati di affittare abitazioni agli ebrei etiopi. Hagai e Daliya, come molte altre giovani famiglie (tra cui alcune miste), sono vittime della crescente emarginazione che gli «ebrei dalla faccia nera» patiscono in Israele. Episodi che spesso sono qualificabili a tutti gli effetti come razzismo.
«Gli israeliani non vogliono avere etiopi attorno – ha dichiarato all’Alternative Information Center Shoko, una donna israeliana che lavora come assistente sociale a Haifa –. Le scuse che adottano per non affittare appartamenti agli etiopi è che sono rumorosi e mangiano l’injera, che è un pane dall’odore intenso che penetra con facilità gli spazi circostanti. In realtà agli israeliani non piacciono gli etiopi per via della pelle scura».
Oggi sono circa 130 mila gli ebrei di origine etiope residenti in Israele. Cittadini di diritto, ebrei le cui radici affondano nella notte dei tempi (forse discendenti della scomparsa tribù di Dan) sono stati trasferiti in Israele con due operazioni segrete (la prima, nel 1984, denominata «Operazione Mosé», la seconda, nel 1991, chiamata «Operazione Salomone»). Da subito l’integrazione è risultata difficile per una popolazione abituata a vivere in un mondo diverso e lontano. E se è vero che i giovani immigrati di seconda generazione sono sempre più presenti nei college, nelle università e nell’esercito; se è vero che ormai la lingua parlata da questi olim d’Africa è sempre più l’ebraico e sempre meno l’amarico, la lingua degli altopiani abissini, resta comunque un fatto: anche in Israele sono spesso ai margini della società. Falasha, appunto: parola che in amarico significa «intrusi».
Il difficile inserimento del falasha solleva anche le polemiche sulle loro autentiche radici ebraiche. «Nonostante la gran maggioranza di noi sia ebrea, vi sono rabbini e normali cittadini che mettono in discussione la nostra ebraicità. Capita anche che ci accusino di esserci inventati il nostro credo solo per entrare a far parte di Israele», spiega Muju, un falasha che vive a Gerusalemme.
La discriminazione nei confronti della comunità etiope è palpabile in ogni ambito della loro vita: quando di tratta di affittare una casa, quando si tratta di scegliere la scuola per i figli, durante la ricerca di lavoro. Sebbene in passato l’Agenzia ebraica si fosse opposta alla creazione di città ghetto, di fatto la maggior parte dei falasha è oggi concentrata in quartieri ben identificati delle città di Revohot, Beer Sheva, Kiryat Malachi e Haifa. Contesti di disgregazione dove lo standard di vita continua a peggiorare. Ancora oggi in Israele circa 50 mila falasha, su una popolazione di circa 130 mila, vengono assistiti dallo Stato.
Il novero di coloro che stanno prendendo coscienza della situazione è comunque in crescita. Come del resto aumenta – e la manifestazione di gennaio lo testimonia – il numero di cittadini che non sono più disposti ad accettare tacendo. Insomma, sembra che anche gli ebrei venuti dagli altopiani abissini non abbiano più intenzione di nascondersi, ma invece chiedano conto pubblicamente alla società israeliana dell’ingiustizia di cui sono vittime quando sono considerati, in virtù della loro pelle nera, cittadini di seconda categoria.