La città di Gerusalemme è un insieme di quartieri i più diversi tra loro: c’è anzitutto la città vecchia, il luogo più antico, più sacro e anche più caotico, che a sua volta è divisa in quattro quartieri ed è abitata dalla gente più diversa, delle tre religioni monoteistiche. Poi c’è Mea Shearim, il quartiere degli ebrei ortodossi, c’è Gerusalemme est, con tutto il Monte degli Ulivi, da dove gli ebrei attendono il ritorno del Messia. Ma c’è anche il quartiere degli artisti, ci sono quartieri solo di arabi, o solo di ebrei, o anche quartieri misti. C’è tutta la città nuova, con quartieri più laici, commerciali, dove ti sembra di stare in una qualsiasi città occidentale. Se entri in certi monasteri, ti sembra di essere in Russia, o in Grecia, o in Etiopia…
C’è spazio per i vivi, ma anche per i morti: tutta la collina del Getsemani è occupata da cimiteri. Ci sono chiese, moschee e sinagoghe; ma c’è anche chi non prega. Ci sono militari, religiosi, laici, turisti: in una passeggiata ordinaria di un’oretta, puoi incontrare una decina di abiti e di divise diverse. Il mistero di Gerusalemme è che contiene tutto questo, e bene o male, si sta insieme. La bellezza di Gerusalemme è che c’è posto per tutto, e per tutti.
E questa è, logicamente, anche la fatica di Gerusalemme, perché la diversità fa paura, è sentita come una minaccia, risveglia ferite antiche, genera pregiudizi, e tutto questo impedisce la relazione. Il dolore di Gerusalemme è quello di una madre che ha figli tanto diversi, che non sempre vanno d’accordo tra loro, che deve far posto a tutti, che insegna pazientemente l’arte del vivere insieme, la bellezza di una convivenza in cui ciascuno, coraggiosamente, arricchisce l’altro aprendogli la propria diversità. La bellezza di una madre è che non perde mai la speranza.
Se guardo fuori dalla finestra, dunque, vedo tutto questo, vedo tutto il mondo.
Ma ancor più paradossale è che anche se guardo dentro la finestra, se mi guardo intorno, vedo la stessa cosa: anche la mia comunità è composta da tutti i quartieri di Gerusalemme, per cui anche fra noi ci sono le stesse differenze, le stesse sfumature: la sfida del vivere insieme è la stessa.
Veniamo da cinque Paesi diversi, di quattro continenti. Parliamo dunque cinque lingue, più un po’ di ebraico, un po’ di arabo, un po’ di latino. A volte chi viene alla nostra Messa rischia di avere in mano una serie indefinita di libretti, e di sentire celebrare in tre o quattro o cinque lingue diverse: canone in francese, letture in italiano, canti in latino, Padre nostro in ebraico… E, se è festa, qualche danza dal vivace ritmo africano.
E il bello è che tutto questo è semplicemente normale: nessuno si stupisce, nessuno si lamenta. Spesso non si capisce la maggior parte di quello che si ascolta, ma questo non fa problema. Riporta semplicemente all’essenziale: essere alla presenza di Qualcun altro, e di esserci non da soli.
La grande scoperta di chi vive qui è di poter stare dentro questa complessità come a casa propria, ovvero che la tua vera casa è quella capace di ospitare anche l’altro, anche il più diverso.
Logicamente sarebbe ingenuo pensare che tutto questo è facile, scontato e viene da sé. Per vivere in questa casa c’è un prezzo da pagare…
Se mi guardo dentro, se guardo il mio cuore, ritrovo esattamente tutti gli stessi quartieri: anche in me c’è un po’ di Talpiot, della città vecchia, del Monte degli Ulivi, di Mea Shearim, del quartiere commerciale… Accettare la complessità che ho dentro, guardarla con verità e misericordia, è il primo passo per accettare quella che c’è fuori. Fare pace nel cuore per fare pace con l’altro.
Eppure neanche questo basta. In questa casa ci si sta bene solo se si ha la certezza che, così com’è, questa casa è abitata da un Altro. Non è certo un caso l’insistenza, nella Bibbia, dell’immagine di Dio che abita a Gerusalemme. Noi ci abitiamo perché ci ha abitato Lui, e ci stiamo bene, perché c’è Lui.
(* L’autrice è una clarissa del monastero Santa Chiara, a Gerusalemme)