Prima di mangiare e bere, l’uomo ha due cuori; dopo aver mangiato e bevuto non ne ha che uno». Con questa affermazione il Talmud Babilonese (Baba Bathra 12b) sottolinea che lo stomaco vuoto, quindi la fame, ha un’azione perturbatrice sullo spirito strettamente connesso al corpo, del quale il cuore è centro unificatore. Ciò non significa incentivare la dissolutezza alimentare, poiché nella Torah – l’insegnamento divino rivelato al Sinai – non solo si insegnano la moderazione e il giusto equilibrio, ma si indica anche cosa è adatto all’alimentazione e cosa invece va evitato (cfr Lv 11,1ss.). A partire dalle indicazioni bibliche, la tradizione ha elaborato una serie di norme, definita kasherut, per indicare ciò di cui l’ebreo può o non può cibarsi, precisandone anche le modalità di assunzione. Si tratta di è un vero e proprio regime di vita che invita a scegliere con attenzione e discernimento ciò che si mangia. Mentre per i vegetali non ci sono particolari restrizioni, per quanto riguarda gli animali sono considerati kasher, «adatti», i pesci con pinne e squame; i quadrupedi che ruminano e hanno l’unghia fessa (come ovini e bovini); gli uccelli di quasi tutte le specie – purché non rapaci – e il pollame. È prevista anche una procedura particolare di macellazione per far soffrire il meno possibile l’animale di cui ci si ciba, così come è necessaria la tecnica della «salatura» per privare la carne macellata di tutto il sangue visibile, elemento ricondotto alla dimensione spirituale. Inoltre non è possibile consumare carne e latticini nello stesso pasto, poiché la Torah prescrive di non mangiare «il capretto con il latte della madre» (cfr Es 23,19), e tale separazione fra i cibi comporta anche l’uso di pentole, stoviglie e posate diverse che – fra i più osservanti – può arrivare anche a frigoriferi separati, doppio lavello e doppia lavastoviglie.
Sottesi all’articolata e complessa kasherut vi sono alcuni valori importanti: ciò che Dio ha creato è per l’uomo, tuttavia va utilizzato con rispetto, soprattutto se implica la soppressione fisica, come nel caso della macellazione; anche il divieto di unire carne e latte rimanda alla sacralità della vita, di cui il latte è simbolo, mentre la carne rimanda alla morte inevitabilmente inflitta all’animale macellato, «vita» e «morte» pertanto non possono essere presenti insieme sulla tavola. A tale proposito, Maimonide – grande medico, filosofo ed ermeneuta ebreo del XII sec. – sosteneva che tutto ciò che la Torah vieta risulta in qualche modo nocivo al corpo, e di conseguenza anche allo spirito, come ribadito, circa mezzo secolo più tardi, anche dal grande Nacmanide. Per esempio: mangiare un animale rapace significa rischiare di assimilarne la «rapacità» oltre che le eventuali infezioni derivanti dalla sua alimentazione malsana.
Andando oltre il significato strettamente religioso, ci si accorge che questa è un’alimentazione «salutistica»: non mangiare molluschi e crostacei evita infezioni gastrointestinali, non unire carne e latte significa migliorare la digestione, e gli esempi potrebbero continuare. Questo è uno dei modi con cui il Signore ha chiesto al popolo di Israele di «essere santo», c’è tuttavia un interessante spazio di confronto per chi, non obbligato a ciò in quanto non ebreo, è comunque alla ricerca di un percorso di vita sano. L’uomo è ciò che mangia? Su questo si può discutere, in ogni caso essere consapevoli del valore soggiacente ad ogni scelta alimentare può migliorare la qualità della vita.