Storie, attualità e archeologia dal Medio Oriente e dal mondo della Bibbia

Il Rabbì che sanava, finito sulla croce

fratel Marco Cosini, Nazaret
25 gennaio 2012
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Il Rabbì che sanava, finito sulla croce
Antonello da Messina, Cristo morto sorretto da un angelo (dettaglio), Museo del Prado, Madrid.

Il supplizio di Gesù non rappresenta un invito a soffrire senza motivo. Ma piuttosto offre la prova disarmante dell'amore di Dio.


Ricordo un dipinto di san Giuseppe ma non ricordo l’autore e neppure il luogo in cui lo vidi: Giuseppe lavorava assieme a un Gesù adolescente e costruiva con lui una croce di legno. Non posso dimenticare la sensazione di disagio, per non dire disappunto, per quella interpretazione della vita di Nazaret che aveva il sapore di qualcosa di macabro. Un padre che «inizia» suo figlio alla prospettiva crudele e drammatica della croce, che quasi lo invita a guardare con simpatia a quello strumento di tortura.

Rimango di questa opinione riguardo a quell’immagine, ma non posso non ritrovare, a distanza di tempo e dentro una famiglia religiosa intenta a seguire la spiritualità di Nazaret, qualche cosa di autentico nell’immagine, questa volta evangelica, di un padre che educa suo figlio alla vita.

Di fatto la prospettiva della croce è presente sin dalle prime battute dei Vangeli che raccontano della vita adulta di Gesù. Si trovano inoltre tracce di tale dimensione pure nei Vangeli dell’infanzia di Luca e di Matteo. Pur non avendo una specializzazione in materia, penso che la dimensione della croce sia effettivamente stata un orizzonte sempre presente nell’esistenza terrena del Figlio di Dio. Ma ritornando al dipinto di cui sopra mi piace pensare che la famiglia di Gesù, e in particolare Giuseppe, abbia svolto un ruolo importante nella decodificazione del simbolo di morte e di sofferenza che egli aveva certamente incontrato più volte sulla sua strada, magari costretto ad ascoltare la storia di persone condannate o vedendone alcune appese a quel legno. Mi piace pensare che, assieme ai suoi genitori, il bambino e il giovane Gesù abbia elaborato una lettura simbolica ed esistenziale della sofferenza umana (sintetizzata nella parola croce) che poi ha utilizzato nella predicazione, facendone tesoro per la sua esperienza personale. È noto il brano in cui Gesù indica la prospettiva della croce come la strada maestra per seguire il Signore: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà» (Lc 9, 23-24). E ancora di più sono note le parole durissime che Gesù rivolge a Pietro quando, dopo la sua stupenda professione di fede, rimprovera il suo maestro per aver annunciato per la prima volta che la sua fine sarebbe stata condita da grandi sofferenze e da una morte violenta. Ed è ancora Pietro a presumere di sé quando, nell’ultima cena, promette e giura che sarebbe stato pronto a morire con lui.

Da queste brevi pennellate appare chiaro come la croce sia presente in momenti diversi della storia di Gesù e come elemento essenziale della vita del discepolo e, vorrei dire, di ogni uomo. Ma quanti fraintendimenti, quante interpretazioni aberranti sono state date a questi e agli altri versetti che parlano della sofferenza e della morte. Nei secoli è capitato che la teologia e la spiritualità abbiano letto questa dimensione quasi togliendola dalla sua prospettiva di sequela e di risurrezione nella quale il Signore Gesù l’aveva posta. Fino a spingersi ad idee diventate delle vere e proprie eresie.

Molto spesso si possono rintracciare dietro esperienze di cristiani di oggi e dietro le loro parole, la convinzione che più si soffre e più Gesù è «contento», più si mettono a tacere i propri bisogni e i propri desideri e più siamo sicuri di essere nel progetto di Dio. è  una lettura pericolosa e dannosa per la vita umana e anche per la fede delle persone. Un Dio che si compiace della sofferenza del proprio figlio (che si tratti del suo «prediletto» o di qualunque altro figlio), che distrugge i suoi sogni, non può essere il vero Dio, non può presentarsi come «credibile» e degno di risposta amorosa da parte dell’uomo. Quale persona vorrebbe vedere il proprio figlio immerso nella sofferenza e nel dolore, fino alla morte cruenta sulla croce? Un Dio di questo genere può essere il Dio buono e ricco di misericordia di cui ci parla la Scrittura e in particolare Gesù? Non è forse Gesù ad aver trascorso gli anni del suo ministero pubblico «sanando», «guarendo» e liberando l’uomo dal suo male concreto?

Bisogna dire con estrema chiarezza che Gesù non ha mai cercato la croce. Allo stesso modo, non l’ha neppure mai subita. Ha accolto la vita, l’ha vissuta fino in fondo, nella prospettiva dell’amore e del dono di sé che, inevitabilmente, presenta il volto sfigurato del dolore a chi intende vivere autenticamente la propria vita («Ecce Homo!» dice Pilato nel Vangelo di Giovanni, presentando alla storia dell’umanità il volto sofferente del Figlio di Dio). Penso che sia questa la croce che Gesù intende quando chiede ai discepoli di portarla. È questa croce che egli ha preso su di sé. È la stessa croce che Giuseppe e Maria hanno abbracciato quando si sono lasciati sconvolgere i loro progetti di vita per una parola e una promessa: essere madre e padre di un figlio inaspettato, che entrava, con la forza e lo spirito di Dio, nella vita feconda di due sposi. La liturgia ci propone di ritornare sul mistero della croce e di rimanervi assorti nei quaranta giorni della quaresima camminando dietro al Signore in una Via Crucis che si estende nella vita di chiunque si affaccia all’esistenza. Rimanere in tale mistero, immersi nella lettura e nella meditazione dei Vangeli, deve essere la prospettiva entro cui guardare al crocifisso e ad ogni uomo che sta sulla croce. «Rinnegare se stessi», «portare la propria croce», sono parole che possono così assumere il volto autentico dell’amore.

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