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Rowan Williams: Spero perché cristiano

Terrasanta.net
3 dicembre 2011
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Rowan Williams: Spero perché cristiano
L'arcivescovo di Canterbury Rowan Williams, primate della Chiesa d'Inghilterra.

Il numero di novembre-dicembre 2011 del bimestrale Terrasanta contiene un'intervista al primate anglicano Rowan Williams. Il colloquio è avvenuto a Roma, all'indomani della giornata interreligiosa convocata dal Papa ad Assisi il 27 ottobre scorso, a cui lo stesso Williams ha preso parte. Vi proponiamo alcuni stralci della conversazione.


Il numero di novembre-dicembre 2011 del bimestrale Terrasanta contiene un’intervista di Edward Pentin al primate anglicano Rowan Williams, arcivescovo di Canterbury. Il colloquio è avvenuto a Roma, all’indomani della giornata interreligiosa convocata dal Papa ad Assisi il 27 ottobre scorso, a cui lo stesso Williams ha preso parte. Vi proponiamo alcuni stralci della conversazione.

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Si dice che l’idea della prima giornata di preghiera per la pace ad Assisi (nel 1986) sia venuta da uno dei suoi predecessori, il dott. Robert Runcie, che la suggerì a Papa Giovanni Paolo II in occasione della sua visita a Canterbury nel 1982.
A dire il vero non sapevo che l’iniziativa avesse avuto origine da quei colloqui, ma è molto significativo il fatto che gli anglicani vi abbiamo preso parte sin dall’inizio.

Che importanza dobbiamo riconoscere all’incontro nel venticinquesimo anniversario della prima giornata di Assisi, soprattutto se pensiamo alla promozione della pace in Terra Santa?
Credo che nessuno si aspettasse un qualche mutamento come esito diretto di questo genere di incontri e penso che ciò valga anche in questo caso. E tuttavia non proporre iniziative simili nel clima attuale sarebbe molto negativo. La cosa importante è il messaggio che passa: «Siamo pronti a incontrarci, siamo disponibili a lavorare insieme». È uno di quei consessi in cui, proprio perché cristiani, ebrei e musulmani si riuniscono, mettono agli atti dichiarazioni su quello che essi pensano possa contribuire alla pace e alla riconciliazione. Questo avrà un peso sulla situazione, anche se non è stata direttamente messa a tema. Credo che anche il fatto che la Giornata si sia svolta ad Assisi è una sorta di riaffermazione dell’importanza dei luoghi santi. I quali non sono solo musei, o pittoreschi memoriali. Sono luoghi in cui ti aspetti che le cose vadano diversamente ed è per questo che la Terra Santa conta; è per questo che dobbiamo lavorare per la pace, perché quello è un luogo che fa la differenza.

Il Santo Padre nel suo discorso ad Assisi ha menzionato terrorismo ed estremismo. Qualcuno osserva che all’incontro avrebbero dovuto venire quelli che strumentalizzano la religione per i propri interessi politici. Naturalmente non verrebbero invitati e in ogni caso non parteciperebbero, ma come possiamo raggiungere questa gente e riportare pace?
Bisogna trovare persone a cui costoro darebbero ascolto, non dico qualcuno che tenga il piede in due scarpe, ma che goda di sufficiente credibilità per rendere possibile una qualche sorta di comunicazione. Personalità del genere ci sono e probabilmente il modo migliore per raggiungerle non sono i grandi appuntamenti internazionali su cui stanno puntati tutti gli sguardi dei media. Ma penso che la domanda a cui tutti dobbiamo rispondere è come usiamo i nostri contatti – cristiani, musulmani, induisti e chiunque altro – per creare relazioni con coloro che non verrebbero o non sarebbero invitati, e assicurarci che essi non siano completamente tagliati fuori da altri quadri di riferimento, siano essi liberali o illuminati, fanatici o violenti (o in qualunque altro modo vogliamo definirli).

I suoi sforzi per promuovere la pace in Terra Santa sono noti, e in particolare l’impegno a prevenire l’emigrazione dei cristiani dalla regione. Cosa possiamo fare, come cristiani, per evitare che ciò accada?
Due sono le cose principali. Anzitutto contribuire in ogni modo al sostentamento economico delle comunità cristiane in Terra Santa attraverso specifici progetti di sostegno in loco, alla creazione di un maggior numero di borse di studio e all’offerta di più opportunità per viaggiare. La seconda cosa è dar vita a gemellaggi parrocchiali con le comunità della Terra Santa. Ciò già avviene in parte, ma si potrebbe fare di più. Tutto questo significa semplicemente che le persone sanno di avere dei legami già aperti, delle relazioni avviate, e che i membri delle comunità cristiane in Palestina o Terra Santa non si sentono abbandonate e dimenticate. Il che è molto importante.

Ha constatato una certa stanchezza riguardo alla situazione in Terra Santa, che forse viene vista come un conflitto troppo complesso e senza soluzioni?
Catalogare definitivamente la questione come «troppo difficile» è uno dei pericoli maggiori, perché significherebbe non cercare più di porre in atto neppure quei passi minimi che potrebbero rendere la situazione migliore. Spesso le attese riguardo a ciò che è possibile risolvere sono a un livello non realistico e così cresce la delusione. Io credo che valga sempre la pena tentare, e tenersi stretti i contatti con le giovani generazioni, israeliane e palestinesi, sostenendo con tutto il fervore possibile quelle reti transnazionali come One Voice, che mette insieme le giovani generazioni di entrambe le parti. C’è un’area in cui è possibile arrivare a notevoli cambiamenti, se non ad autentiche trasformazioni,  e vale la pena di farlo.

Quindi lei nutre la speranza che le cose possano cambiare?
Io spero sempre che le cose possano cambiare, altrimenti non sarei un cristiano. Ma se mi chiede se sono ottimista circa gli sviluppi dei prossimi dodici mesi, rispondo che no, non lo sono. Questo però non significa che non si debbano investire energie nelle relazioni a lungo termine.

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