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Palestinesi uniti, ma non è detto

Giorgio Bernardelli
30 novembre 2011
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Palestinesi uniti, ma non è detto
Da sinistra: Khaled Meshal e Mahmoud Abbas (alias Abu Mazen).

In Palestina da qualche settimana si riparla di governo di unità nazionale e di elezioni. Dopo l'incontro di qualche giorno fa al Cairo con il leader di Hamas, Khaled Meshal, il presidente dell’Autorità Palestinese - e capo di Fatah - Abu Mazen ha anche indicato il 4 maggio 2012 per le elezioni presidenziali e politiche. Tutto chiaro, dunque? A parole sì, ma...


In Palestina da qualche settimana si riparla di governo di unità nazionale e di elezioni. Dopo l’incontro di qualche giorno fa al Cairo con il leader di Hamas, Khaled Meshal, il presidente dell’Autorità Palestinese – e capo di Fatah – Abu Mazen ha anche indicato il 4 maggio 2012 come la data in cui potrebbe tenersi il voto sia per il nuovo presidente sia per i componenti dell’Assemblea legislativa. E il premier di Ramallah Salaam Fayyad ha dichiarato di essere disposto a farsi da parte per facilitare la nascita del governo di unità nazionale.

Tutto chiaro, dunque? A parole sì, ma basta leggere i commenti alla nuova intesa per capire come mai lo stesso Abu Mazen indichi ancora come una «possibilità» le elezioni del 4 maggio. Intanto va capito il contesto: come già era accaduto in primavera Fatah e Hamas tornano a parlare di un’intesa non perché improvvisamente abbiano scoperto affinità fino a ieri insospettate, ma perché costretti dalla situazione. Con il fallimento dell’opzione Onu e il processo di pace con Israele ormai archiviato Fatah è finita in un vicolo cieco: il governo di unità nazionale per Abu Mazen oggi è l’unico modo per dare una risposta politica senza piegarsi ai no di Netanyahu e Obama. Ma è una risposta che potrebbe avere un prezzo molto alto. Dall’altra parte anche Hamas deve fare i conti con un quadro arabo che sta cambiando: con il presidente Bashar al-Assad in bilico in Siria, il movimento, che proprio a Damasco ha il suo quartier generale, si sta riposizionando. Prendendo sempre più le distanze pure da Teheran per guardare molto più vicino: innanzi tutto al nuovo Egitto, dove con ogni probabilità i Fratelli musulmani – ai quali il movimento da sempre è legato – vinceranno le elezioni e andranno al governo. Ma non è detto che Meshal si trasferisca al Cairo: in queste ultime settimane c’è stata un’apertura clamorosa anche da parte della Giordania, dove il nuovo premier Awn Khasawneh appena nominato in ottobre ha dichiarato che fu un errore cacciare dal Paese la leadership di Hamas. E lo stesso re Abdallah II è stato qualche giorno fa a Ramallah per dare il suo sostegno al processo di «riconciliazione nazionale». Dunque Hamas vede oggi il suo futuro tra il Cairo ed Amman. Ma questo significa anche un’altra cosa ben precisa: Hamas dovrà compiere un ulteriore passo avanti nell’evoluzione da movimento di lotta a soggetto politico. Perché se ti appoggi a un Paese confinante con Israele che non ha alcun interesse a essere coinvolto in un conflitto i margini di manovra per azioni militari diventano estremamente ristretti.

Tutto questo dovrebbe far ritenere che per il governo palestinese questa sia davvero la volta buona. Ma, come dovremmo aver imparato ormai bene, anche in Palestina tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. Così è molto interessante leggere su Bitterlemons.org la puntata che la settimana scorsa questo sito di analisi politica che ospita sempre due voci israeliane e due palestinesi dedica al tema della riconciliazione palestinese. Tra i quattro articoli merita in particolare di essere letto quello di Amira Hass, che – pur premettendo che la sua sfera di cristallo si è rotta ormai da tempo – spiega i motivi del suo scetticismo sul governo di unità nazionale. Che si possono riassumere in due principali. Primo: le ragioni che finora hanno diviso tra loro su tutto Fatah e Hamas non sono affatto superate. Secondo: l’idea stessa di un governo e di elezioni legislative nell’Autorità Nazionale Palestinese è legata al quadro tracciato dagli Accordi di Oslo. Come fa a funzionare nel momento in cui quel quadro di riferimento sta crollando? Di qui la sua idea alternativa: ripartire dall’Olp piuttosto che da istituzioni svuotate di contenuti dal persistere dell’occupazione israeliana.

Vale infine la pena di segnalare anche il commento di Gershon Baskin sul Jerusalem Post. Non fosse altro per il fatto che Baskin è stato l’israeliano che ha svolto un ruolo chiave nella trattativa per la liberazione di Gilad Shalit. Dunque è uno che i contatti con Hamas li ha sul serio. Nel suo articolo sposa la tesi dell’evoluzione in atto nel movimento islamista palestinese. Ma soprattutto pone una domanda interessante: quando molto presto avremo gli islamisti al governo in Egitto, oltre che in Tunisia e in Marocco e i Paesi occidentali intratterranno rapporti con loro, avrà ancora un senso il boicottaggio di Hamas?

Clicca qui per leggere la notizia di Maan sul 4 maggio 2012 come possibile data per le elezioni

Clicca qui per leggere gli articoli di Bitterlemons.org

Clicca qui per leggere l’articolo di Gershon Baskin

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