Giordania, ai margini della Primavera araba ma anch’essa in una fase critica
Benché non sia sotto i riflettori, per quanto riguarda le rivolte in corso nel mondo arabo, il governo della Giordania deve anch’esso fare i conti con un’opposizione che va prendendo sempre più piede. È quanto si legge in un rapporto dello statunitense Brookings Doha Center. Ma il regno hashemita è ancora in tempo per riforme pacifiche.
(Milano) – Benché non sia sotto i riflettori, per quanto riguarda le rivolte in corso nel mondo arabo, il governo della Giordania deve anch’esso fare i conti con un’opposizione a cui contrappone delle riforme blande. È quanto si legge in un rapporto del Brookings Doha Center, un pensatoio dell’area del centro sinistra statunitense.
Il documento, pubblicato all’inizio di questo mese, riferisce che benché le proteste non siano state tanto accese quanto quelle registrate in Egitto, Bahrain, Siria, Yemen e Libia, tuttavia le tensioni in Giordania esistono e potrebbero crescere di intensità.
Fin ad oggi, nel regno hashemita sono state mitigate dalla coesistenza di un mix di istanze islamiste, liberali, di sinistra e tribali, ognuna con i propri obiettivi.
«A differenza che in Egitto, Tunisia e Yemen qui le proteste non hanno a disposizione un leader impopolare come Hosni Mubarak o Ali Abdullah Saleh, contro i quari mobilitare le piazze», recita il rapporto. «Tuttavia, tra i gruppi dell’opposizione va crescendo il favore per una “monarchia costituzionale”, forma istituzionale che, tra l’altro, implicherebbe un Parlamento più forte e un primo ministro eletto».
Il ridimensionamento dei poteri e delle prerogative del sovrano è stato a lungo considerato un tabù nella politica giordana, ma la questione viene sempre più dibattuta anche pubblicamente. E secondo il rapporto questo «è solo un segno» del cambiamento in atto nel confronto politico.
Re Abdullah ha provato a toccare questi temi impegandosi a riforme graduali. Il 12 giugno scorso ha dichiarato che la Giordania andrà verso un governo che sia espressione della maggioranza eletta in Parlamento (fino ad ora i ministri sono nominati dal re a prescindere dalla composizione del Parlamento).
In quell’occasione non venne precisata alcuna tempistica, ma due giorni più tardi il monarca chiarificò la propria posizione, osservando che i partiti politici non sono ancora sufficientemente maturi e organizzati e che il processo potrebbe richiedere «almeno due o tre anni».
Lo studio americano sottolinea che nessuno in Giordania invoca la caduta della monarchia, e spiega che la «considerevole legittimazione storica» di cui gode la dinastia hashemita concede ancora spazi di manovra e permette al governo giordano di avviare «riforme significative».
Le pressioni per i cambiamenti politici sono andate crescendo. Nell’ultimo decennio del secolo scorso la Giordania godeva fama di Paese tra i più democratici del Medio Oriente, ma poi, secondo il Brookings Doha Center, la nazione è stata teatro di un «processo concertato di de-liberalizzazione, che ha tolto via molte delle acquisizioni politiche precedenti».
Il rapporto osserva che attualmente il regno hashemita ha «un sistema partitico tra i più deboli della regione e uno dei parlamenti meno rappresentativi», aggiungendo che «va sottolineato come tra i 120 deputati eletti in parlamento nel novembre 2010 non sia formalmente rappresentata l’opposizione». La Giordania ha anche già cambiato due capi del governo da febbraio a questa parte, un segnale di disagio nel sistema.
Il documento aggiunge che re Abdullah non gode della stessa stima che veniva tributata a suo padre e si mostra meno capace di lui. Ciò fa sì che le tensioni sotterranee vengano «sempre più alla superficie».
Secondo il Brookings Doha Center l’amministrazione Obama, che ha forti relazioni bilaterali con la Giordania e la considera un alleato strategico, può esercitare forti pressioni perché si mettano in campo le riforme.
«Gli Stati Uniti, e le varie amministrazioni (che si sono succedute alla Casa bianca – ndr), hanno promosso la Giordania al ruolo di “modello” per le riforme economiche e politiche», conclude il rapporto. «Questo poteva essere accettabile prima della Primavera araba, ma oggi non lo è più. La stabilità della Giordania non è più garantita, soprattutto con il peggiorare delle condizioni economiche».
Dopo la Primavera araba, chiosa il saggio del centro studi Brookings, i giordani vogliono fatti, non più solo parole. Ne hanno già dovute ascoltare molte altre volte fino ad oggi.
«Benché non abbiano ancora raggiunto una massa critica, le forze d’opposizione, tra cui gli islamisti, le forze di sinistra e i movimenti giovanili, hanno lentamente trovato coraggio. Per la prima volta negli ultimi decenni sono più propense a sfidare il controllo della monarchia sulla vita pubblica. La loro deferenza per il re rimane, ma non durerà per sempre».