La triste notizia, nella scorsa estate, della morte dell’arcivescovo Pietro Sambi, nunzio apostolico negli Stati Uniti (deceduto a Baltimora il 27 luglio scorso – ndr), e precedentemente delegato apostolico in Terra Santa (1998-2005), è stata un’occasione per riflettere ancora sulla diplomazia pontificia. Essa si esprime nelle persone dei nunzi e dei loro collaboratori, che rappresentano il Papa, quindi la Chiesa universale, presso Stati e governi, in stretto rapporto con le Chiese locali.
Avendone conosciuto personalmente un certo numero lungo gli anni, posso testimoniare che essi sono innanzitutto e soprattutto sacerdoti. Lo capii anni fa, accompagnandone più d’uno in missioni particolarmente delicate: all’arrivo a destinazione la preoccupazione era dove e quando avrebbero potuto celebrare la Messa.
Agli occhi del mondo vengono ritenuti un gruppo altamente qualificato professionalmente: uomini colti, saggi nell’analisi di problematiche politiche regionali e globali, abili negoziatori, ottimi giocatori di tennis (alcuni). Anch’io pensavo così. Ma ascoltando edificato le loro omelie durante le Messe, mi sono reso conto che in verità sono propriamente sacerdoti, ai quali però è affidato il compito oltremodo arduo di conquistare pacificamente quegli spazi di libertà di cui la Chiesa necessita per proclamare, celebrare, vivere la Buona Novella di Gesù Cristo, per la salvezza del mondo. Ma ad essi spetta anche il compito, non meno complesso ed esigente, di assicurare, giorno per giorno, che la comunione della Chiesa tutt’intera sia vissuta realmente in ogni luogo, che i pastori e i fedeli delle Chiese locali ovunque esse si trovino, vivano la loro obbedienza al Vicario di Cristo in terra come intrinseca alla loro scelta di essere discepoli del Signore Risorto.
Certo, ogni nunzio è un individuo a sé, che interpreta in modo distinto la sua alta missione. Così, dei rappresentanti del Papa in Terra Santa, ricordo, tra le altre doti e virtù, l’eleganza di William Carew, la grande signorilità di Carlo Curis, la nobiltà d’animo, oltre che d’origini, di Andrea Lanza di Montezemolo.
Del compianto Pietro Sambi ricordo la sincerità e la grande umanità, un binomio capace di affascinare anche gli avversari. Amavo sentirlo raccontare dei dialoghi con Fidel Castro. Il líder maximo (quando Sambi era a Cuba) era solito recarsi nella sede della nunziatura nelle ore piccole della notte per consumare un piatto di pasta con monsignor Sambi (capo missione ad interim) e intrattenersi con lui sugli argomenti più svariati.
Chissà se il successivo ammorbidimento del comandante comunista nei riguardi della Chiesa non sia dovuto, tra l’altro, anche a tali colloqui. In Israele non vi fu nulla di così esotico, ma vedevo quella stessa amabilità, e nel contempo quell’essere «tutto d’un pezzo», nel dissipare le inevitabili tensioni sorte talvolta nei negoziati con i rappresentanti dello Stato. E quando questo eccellentissimo prelato mi parlava del suo sentirsi così pienamente realizzato mentre, durante le vacanze, esercitava il ministero sacerdotale nel suo paese, da semplice prete di campagna, era evidente che non si trattava di «parole di rito», «obbligate», ma di genuina espressione del suo essere e sentirsi sacerdote.
Riposi in pace.