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Padre Rufino Niccacci tra romanzo e storia

Giampiero Sandionigi
25 ottobre 2011
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Nel centenario della nascita del «Giusto fra le nazioni» padre Rufino Niccacci, torniamo a parlare del frate minore della Provincia umbra che nel 1943-44 ad Assisi contribuì a salvare la vita a centinaia di ebrei. La sua storia venne raccontata in un libro che nel 1978, quando lui era ormai già morto, gli diede una certa notorietà. Ma ad Assisi fece anche discutere...


(Milano) – Quando il 17 giugno 1944 il ventitreenne Alexander Ramati entra in Assisi a bordo di una jeep delle truppe alleate che incalzano i tedeschi in ritirata non si concentra sulle belle ragazze che festeggiano quei giovani in divisa venuti da lontano. La sua attenzione è catturata da uno striscione che recita: «Gli ebrei d’Italia hanno sangue italiano, spirito italiano e genio italiano. Mazzini». Incuriosito, chiede spiegazioni e un astante gli risponde che alcune centinaia di ebrei hanno trovato rifugio e salvezza entro le mura cittadine. «Ricordo ancora – scriverà più tardi Ramati – come il mio cuore sussultò. Non ero solo un corrispondente di guerra. Ero un soldato del Secondo Corpo di spedizione polacco del generale Anders, che faceva parte dell’Ottava Armata britannica del generale Montgomery e scrivevo per il nostro giornale militare. (…) Ero un polacco, ma ero anche un ebreo. I miei genitori e mio fratello minore erano rimasti a Brest Litovsk sotto i nazisti, ma speravo che si trovassero già sotto i russi. Ammesso che fossero vivi. Qui, in Assisi, stavo per vedere per la prima volta degli ebrei d’Europa sani e salvi».

Ramati vuole capire meglio. Gli presentano padre Rufino Niccacci, che a sua volta lo introduce a mons. Nicolini e ad alcuni degli ebrei scampati all’arresto e alla deportazione. Il giovane passa di sorpresa in sorpresa. Pochi giorni dopo, prima di ripartire con il suo reparto, prende un impegno con se stesso: «Dissi a padre Rufino che un giorno, presto, sarei tornato per scrivere la loro storia. Egli non mi chiese di farlo; nessuno là voleva che si cantassero le lodi della loro carità. Fui io che feci quel voto a me stesso. Non sapevo allora che sarebbero passati più di trent’anni prima che potessi mantenere quella promessa».

È il 1978 quando a New York Ramati dà alle stampe il libro Assisi Underground – The Priest Who Rescued Jews. Molta acqua è passata sotto i ponti da quella metà giugno di 34 anni prima. L’autore, che già in patria, prima della guerra, aveva studiato drammaturgia, nel 1951 è andato a vivere a Hollywood. Ha pubblicato vari libri: racconti, romanzi, saggi. Di tanto in tanto si reca in Israele dove tiene corsi all’università di Tel Aviv. Durante uno di questi soggiorni, nel 1974, incontra nuovamente a Gerusalemme padre Rufino, che vi si trova in pellegrinaggio. Ramati si adopera con successo perché al frate umbro lo Yad Vashem – istituzione pubblica israeliana che cura il memoriale e il museo dell’Olocausto – attribuisca la medaglia di Giusto fra le nazioni (la lettera di Ramati allo Yad Vashem è riprodotta nella galleria fotografica).

Poi lo scrittore chiede a fra Rufino di restare suo ospite per qualche giorno. I due passano il tempo a ripercorrere,  attraverso i ricordi del francescano, quei mesi tra il settembre 1943 e il giugno 1944. Terminata la guerra il frate umbro ha ricevuto vari attestati di riconoscenza (nel 1955-56, ad esempio, quello della comunità israelitica di Trieste), ma non ha mai indugiato all’autocompiacimento. Ha salvato sì le vite di molti ebrei rifugiati ad Assisi, collaborando con il vescovo Giuseppe Placido Nicolini, ma avrebbe fatto lo stesso per qualunque altro essere umano in pericolo. E in effetti, nel 1944, ha tolto d’impiccio anche qualche fascista che cercava di scampare a rese dei conti troppo sbrigative. Il frate vi fa cenno in una lettera indirizzata alla nipote suor Chiara, stimmatina, il 27 novembre 1945, un mese dopo essere stato trasferito dal convento di San Damiano a quello di Todi: «Avrai saputo dei miei arresti, della mia condanna alla deportazione, ma poi nulla!!! Dio mi ha protetto. E poi sono seguite insidie, ricatti, intimidazioni e simili complimenti. Ancora non è tutto finito. Ancora sono in campo di battaglia, ieri con i perseguitati, oggi con gli sventurati… Così mi piace la vita. Non la so concepire senza battaglia. Ho lottato, lotto e lotterò ancora perché mi pare sia diritto di ognuno di difendere gli oppressi e soprattutto per tenere alti i nostri ideali di civiltà, di religione, di patria».

Fatto sta che i ricordi di fra Rufino, e quelli di altre persone che Ramati racconta di aver contattato per avere riscontri e conferme, costituiscono materiale sufficiente per un libro (grazie alla collaborazione dello Yad Vashem, noi stessi  siamo in grado di riprodurre due brevissime testimonianze, in lingua inglese, nella galleria fotografica di questo articolo). Da buon giornalista e uomo di cinema, a Ramati non interessa comporre un saggio per addetti ai lavori. Vuole qualcosa che raggiunga il grande pubblico e avvinca il lettore. Assisi Underground prende così la forma di un romanzo, in cui l’io narrante è quello di padre Rufino, che assurge al rango di protagonista principale. Qualche giornale, subito dopo la guerra, ha già raccontato la storia di padre Niccacci e degli altri, ma l’opera di Ramati contribuisce a porre nuovamente l’ex padre guardiano di San Damiano sotto i riflettori. Il libro deve avere una certa eco se fra Rufino qualche anno più tardi – è l’11 aprile 1983 – viene menzionato dal presidente Usa Ronald Reagan in un discorso a un gruppo di ebrei americani sopravvissuti all’Olocausto (citiamo: «La pittoresca città di Assisi, in Italia, diede rifugio e protezione a 300 ebrei. Padre Rufino Niccacci organizzò l’impresa, nascondendo persone nel suo convento e nelle case dei parrocchiani. Una semplice soffiata da parte di un informatore sarebbe bastata a condannare l’intera cittadina ai campi di prigionia, eppure non si tirarono indietro»).

Tra i lettori attenti dell’opera di Ramati, c’è il giovane Alviero Niccacci, lontano parente di fra Rufino e anche lui nativo di Deruta (Perugia). All’epoca dei fatti narrati lui non aveva ancora quattro anni. Nei suoi ricordi da ragazzino fra Rufino transitava in bici per le vie del paese quando andava a trovare i genitori. Nulla di più. Ma nel 1974 quel bambino è ormai un giovanotto, ha vestito anch’egli il saio francescano e si trova a Gerusalemme per gli studi biblici. Ed è così che reincontra fra Rufino, pellegrino in Terra Santa, e sente parlare per la prima volta del suo operato nel 1943-44.

Quando il libro di Ramati giunge nelle sue mani, fra Alviero è ormai docente allo Studium Biblicum Franciscanum. Terminata la lettura, decide di tradurre il testo in italiano. Le edizioni Porziuncola, dei frati minori della provincia umbra, lo pubblicheranno nel 1981, quattro anni prima che l’americano Cannon Group distribuisca il film Assisi Underground, messo in onda in Italia anche dalla Rai.

Ad Assisi tanto il libro quanto il film non suscitano unanimi consensi. Qualcuno arriccia il naso per il ruolo preponderante che il racconto attribuisce a padre Rufino. Don Aldo Brunacci arriva a contestare la storicità di alcuni dei fatti narrati e addebita a Ramati e al frate di aver fatto abbondante ricorso alla fantasia.

La polemica è a senso unico perché fra Rufino – morto nel 1976, due anni prima che Assisi Underground uscisse nelle librerie americane – non può replicare. In sua vece, e per tutelare il suo buon nome, scendono in campo i frati minori della sua provincia che nel 1989 pubblicano in un quaderno (Colligere fragmenta) una raccolta di testimonianze (collezionate da padre Marino Bigaroni negli archivi del convento di Chiesa Nuova) rese da persone menzionate nel «romanzo» di Alexander Ramati, le quali confermano numerosi dettagli della narrazione.

Discriminare con precisione chirurgica la linea di confine tra i fatti storici e la loro rielaborazione da parte di uno scrittore che si prefiggeva di dare coerenza narrativa al proprio racconto non è semplice. Non va dimenticato, oltretutto, che la condotta del vescovo Nicolini (scomparso nel 1973) e dei suoi collaboratori dava luogo a tutta una serie di gravi reati agli occhi dei repubblichini e degli occupanti nazisti. Dunque era prudente non solo evitare di lasciare tracce scritte di quanto si stava facendo, ma anche ridurre al massimo la cerchia di persone coinvolte nell’organizzazione clandestina e al corrente dei dettagli.

Oggi possiamo forse dire che se il lavoro di Ramati non ha il rango di fonte ineccepibile per le ricerche degli storici professionisti, tuttavia non si discosta troppo dal reportage giornalistico.

 


Il centenario di padre Rufino nella sua terra natale

Il comune umbro di Deruta (circa 9.500 abitanti, in provincia di Perugia) è la culla del clan Niccacci. Anche padre Rufino vi ebbe i natali nel 1911 e vi morì nel 1976, mentre cercava di dar concretezza al sogno di creare, in cima a una collina, una casa della riconciliazione e della comunione tra cristiani ed ebrei. Il progetto non gli è sopravvissuto, ma la strada che risale quel colle oggi porta il suo nome: via padre Rufino Niccacci.

Il 20 marzo scorso la municipalità ha ricordato il centenario della sua nascita con una semplice cerimonia a cui sono intervenuti fra gli altri il sindaco, Alvaro Verbena, e fra Alviero Niccacci, frate minore della Provincia umbra ma da decenni in servizio alla Custodia di Terra Santa come docente dello Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme.

L’avvocato Luigi Niccacci è stato tra i promotori della commemorazione, durante la quale sono state lette alcune brevi testimonianze tratte dal quaderno Colligere fragmenta. Pronipote di padre Rufino, che era fratello di suo nonno Luigi, l’avvocato ci racconta che oggi il mulino di famiglia non è più attivo. Per alcuni anni vi abitò anche la famiglia Fintzi (o Finzi) che fu portata lì, alla Molinella, proprio da padre Rufino nella primavera del 1944, come racconta il libro di Alexander Ramati. I coniugi Fintzi venivano dal Belgio e a quanto sembra – ma le testimonianze sono un po’ confuse – erano una coppia mista: ebreo lui, cristiana lei. Approdati ad Assisi, insieme ad altri profughi, avevano trovato accoglienza, con la piccola Brigitte, di due anni, nel monastero delle suore Collettine francesi. Quando anche quel convento divenne un rifugio insicuro, nottetempo il frate trasferì la famigliola a Deruta, in casa del fratello Luigi.

«I Fintzi – ci spiega al telefono l’avvocato Niccacci – rimasero a vivere in casa di mia nonna per alcuni anni. Brigitte, la figlia dei coniugi Finzi di cui si parla nel libro di Ramati, ha l’età di mio padre e quindi è cresciuta con lui. Proprio qui è nato il suo fratellino Enrico. Lui ora sta in California e non siamo rimasti in contatto. Mentre invece la mia famiglia ha mantenuto relazioni molto intense con Brigitte, che è andata a vivere in Belgio. Purtroppo da parecchi mesi non abbiamo più sue notizie. Abbiamo inutilmente cercato di contattarla tramite ambasciata o di capire se le sia accaduto qualcosa, ma senza successo. Resta il fatto che non risponde più al telefono e non riceve la corrispondenza». (g.s.)

 

Per saperne di più:
• Alexander Ramati, Assisi clandestina. Assisi e l’occupazione nazista secondo il racconto di P. Rufino Niccacci, ed. Porziuncola, 2000 (ristampa della prima edizione italiana, 1981)

Colligere fragmenta (Raccogliere ogni frammento). Sulla vicenda degli ebrei in Assisi (1943-1944), ed. Porziuncola, 1989 (N.B.: Il quaderno è ormai di difficile reperimento)

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