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Mar Musa per una Siria riconciliata

Carlo Giorgi
7 ottobre 2011
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Un segno di speranza dalla Siria dilaniata dagli scontri: la comunità monastica di Deir Mar Musa, monastero fondato nel deserto da padre Paolo Dall’Oglio, ha proposto dal 23 al 30 settembre scorsi, una settimana di digiuno e preghiera per la pace e la riconciliazione, ma anche contro gli immobilismi e le paure.


(Milano) – Un segno di speranza dalla Siria dilaniata dagli scontri: la comunità monastica di Deir Mar Musa, monastero fondato nel deserto da padre Paolo Dall’Oglio, ha proposto dal 23 al 30 settembre scorsi, una settimana di digiuno e preghiera per la pace e la riconciliazione.

«Sembra che il linguaggio dei proiettili abbia imposto il suo dominio sulle piazze del paese, assieme ai lamenti dei feriti, delle persone in carcere, delle persone rapite, degli affamati. Cosa ci resta?» si domandavano i monaci di Deir Mar Musa, lanciando l’iniziativa. «Resta – era la risposta – il nostro voto di non cadere nell’estremismo, di non cedere all’istinto di rinchiuderci nell’ambito dei nostri interessi privati, e resta il continuare a cercare Iddio e il fratello in mezzo a queste condizioni, fino a che passi questa crisi con successo, con l’aiuto del Misericordioso, amen!»

Alla fine della settimana di digiuno e preghiera abbiamo chiesto un bilancio a padre Paolo e un suo punto di vista sulla situazione siriana. «Organizzare questa settimana è stato un modo di reagire all’angoscia dell’ambiente – spiega il monaco -. Nel clima attuale le posizioni si estremizzano. Purché questa situazione finisca si finisce per augurarsi che vinca l’una o l’altra parte. Anche all’interno delle famiglie o delle comunità religiose si creano polarizzazioni pericolose. Ciascuno ha il suo punto di vista e rischia di assolutizzarlo… La verità però non sta nel mezzo, non è un compromesso, ma oggi è qualcosa da ricostruire con la riconciliazione».

«La risposta al nostro invito alla preghiera e al digiuno sul piano qualitativo è stata molto buona – continua padre Dall’Oglio -. Di questi tempi non ci si sposta per la Siria volentieri e per molti è stato difficile raggiungere il monastero. Eppure il numero e la qualità dei giovani che hanno partecipato sono stati molto incoraggianti. Durante la settimana abbiamo proposto una preghiera comune al posto del pranzo di mezzogiorno, mentre l’unico pasto pubblico era la sera dopo il tramonto. Bisogna offrire occasioni di impegno spirituale e preghiera per la riconciliazione, per evitare che la Siria arrivi a vivere una situazione simile a quella della Libia. Molti cristiani locali hanno paura della legge del numero: essendo una minoranza temono di rimanere schiacciati. Invece bisogna far crescere in Siria l’idea della “democrazia consensuale”. La democrazia è ricerca del consenso e non la vittoria di un gruppo su un altro. La domanda è: ci sono ancora le condizioni, in Siria, per evitare che una parte prevalga sull’altra? Per fondare una democrazia basata sul consenso? La risposta non la conosco e, in fondo, dipende dalla responsabilità di tutti».

Il religioso italiano è perplesso: «Una cosa che stiamo notando è che in ambiente cristiano c’è la tendenza a giustificare l’immobilismo del regime siriano, come unico bastione contro il fondamentalismo musulmano. Molti temono che in Siria si presenti una situazione simile a quella dell’Iraq. Ma questa semplificazione retorica è perdente e nociva. Dobbiamo ricordarci che la situazione Irachena non viene dal nulla: anche il sistema di Saddam Hussein, che sembrava proteggere i cristiani, non ha mai evitato il loro esodo. I cristiani iracheni hanno iniziato ad abbandonare il Paese già dagli anni Quaranta del secolo scorso… Oggi, in Siria, o si riesce a sviluppare una teologia e una pratica pastorale del cristianesimo come lievito, come elemento di congiunzione e dialogo, oppure sarà inevitabile partire. Appoggiare l’immobilismo rischia pericolosamente di avvicinare la fine dei cristiani in Medio Oriente. In questa situazione bisogna che tutti coloro che possono, facciano qualcosa per convincere lo Stato al cambiamento. Senza la libertà di opinione e di stampa, soprattutto, un’evoluzione positiva delle cose è impossibile».

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