La giustizia del Signore del Sabato
Il senso morale si impara e si assorbe nei primi anni dell’esistenza umana. Chi ha la fortuna di vivere un’esperienza familiare sana ed equilibrata ha la possibilità di sviluppare una visione più chiara sul bene e sul male, che va al di là di semplici paletti oltre i quali non ci si deve spingere, ma che tocca la questione di ciò che è essenzialmente buono e che, siccome fa bene anzitutto a chi lo pratica, viene perseguito e scelto. Chi passa attraverso tale sviluppo armonico vive la legge morale, cultuale, religiosa o sociale che sia nel principio più ampio della libertà ed è capace di raggiungere lo spirito della norma senza fermarsi alla lettera.
La personalità adulta di Gesù rivela ad ogni versetto evangelico questa maturità che gli consente di porsi di fronte alla tradizione nel dovuto rispetto ma pure nella libertà più grande. Tanto più che la Torah («Legge», riferita ai primi cinque libri della Bibbia) porta nella sua accezione più autentica il senso dell’Alleanza e della rivelazione di Dio. In altre parole, non si possono comprendere le molteplici norme della Legge che trovano il loro cuore nelle dieci parole (i dieci comandamenti) al di fuori di tali categorie: la legge ha senso nella misura in cui è riconosciuta e accolta quale Parola di Dio, che ha alla sua fonte l’amore sconfinato di Dio; il quale, per primo, offre il patto di amicizia e di Alleanza con il popolo. La Torah dunque diventa la risposta dell’uomo a tale iniziativa amorosa del Creatore che non vuole abbandonare la sua creatura al suo destino e, attraverso la sua Parola, la salva.
Se si salta questa premessa, l’osservanza della legge diventa legalismo, passione morbosa per l’osservanza letterale di norme che non hanno potere salvifico, ma che ultimamente diventano criterio discriminatorio di schiavitù e di morte.
È uno degli scontri più duri che Gesù dovrà vivere con la sua gente e che lo metterà in cattiva luce di fronte a chi si fa garante di una solida tradizione religiosa. È il paradosso di sempre che trasforma la fede non in un cammino liberante quale è chiamata ad essere, ma un principio che imprigiona con la scusa della fedeltà e che porta ad una presunta sicurezza che rappresenta però soltanto un basso e povero surrogato della fede stessa. Non si tratta qui di schierarsi dalla parte di un Gesù liberale che rende più comoda la vita, ma di cogliere il senso più autentico della legge stessa.
Uno degli esempi più eclatanti di questa mentalità lo ritroviamo nella trasgressione del sabato di cui Gesù si fa protagonista in più di un’occasione.
Il Vangelo di Matteo, al capitolo 12, riporta ben due mancanze gravi di Gesù e dei suoi discepoli in relazione al giorno sacro del Sabato. La prima riguarda le spighe strappate dai seguaci di Gesù per saziare la loro fame. Lo scandalo è immediato e alcuni farisei non perdono l’occasione per accusarlo: «Ecco i tuoi discepoli stanno facendo quello che non è lecito fare di sabato» (Mt 12,2). Se ci astraiamo un momento dal contesto religioso giudaico e osserviamo la situazione da un punto prospettico più distaccato troviamo, da una parte, un gruppo di uomini affamati che stanno tentando di fare della loro vita qualcosa di buono seguendo una persona che predica l’amore fraterno, la pace, la speranza, la beatitudine. Dall’altra l’interpretazione rigida di una norma che in questo modo vieta di svolgere il minimo lavoro nel giorno dedicato al riposo «perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il settimo giorno» (Es 20,11). In un senso teologico probabilmente più corretto, ci troviamo di fronte alla proclamazione di Gesù come la nuova legge, la Torah del nuovo popolo di Dio che in qualche modo scardina le certezze acquisite e le pone in una nuova luce. In ogni caso la situazione paradossale e delicata rimane in tutta la sua forza.
Gesù non ha dubbi e si pone nella condizione di essere accusato di trasgredire la norma per rimanere fedele allo spirito della Legge e della Parola di Dio: l’Alleanza di Dio con gli uomini. Afferma con determinazione: «il Figlio dell’uomo è signore del sabato». Anzi, riportando l’esempio di un illustre antenato, anch’egli trasgressore del sabato, Davide, arriva ad affermare addirittura che «qui vi è uno più grande del tempio» (Mt 12,6). In altre parole Gesù non si lascia sfuggire l’occasione della denuncia di ciò che realmente trasgredisce il volere di Dio andando contro il comandamento, ermeneutico e fondante di tutta la Legge, dell’amore. Non ha paura Gesù di pagare di persona tale comportamento pur di vedere affermata la vera giustizia.
Il secondo esempio è ancora più eclatante. Nella sinagoga (il luogo in cui la comunità si riuniva per ascoltare la Torah), in giorno di sabato, c’è un uomo con una mano paralizzata, con un evidente handicap fisico che ovviamente lo limita grandemente nelle sue possibilità di vivere una vita dignitosa. Gli domandano: «È lecito guarire in giorno di sabato?» (12,10). Gesù fa notare, immagino con una nota di biasimo, che in giorno di sabato se uno ha una pecora e questa gli cade in un fosso, non si fa problemi a tirarla fuori! In Marco l’atteggiamento di Gesù è ancora più eloquente e toccante. Chiede all’uomo di mettersi nel mezzo e domanda agli altri: «È lecito in giorno di sabato fare del bene o fare del male, salvare una vita o perderla?» (Mc 3,4). Marco annota a questo punto lo sguardo di Gesù che, «guardandoli tutt’intorno con indignazione, rattristato per la durezza dei loro cuori» (Mc 3,5), compie il miracolo e guarisce l’uomo.
Il coraggio della denuncia e il coraggio di stare dalla parte dello spirito e non della lettera: questa è la sfida, perché la tentazione della chiusura in ciò che ci fa sentire a posto e al sicuro senza più obbedire allo spirito è quanto mai attualissima e insidiosa.