Alle elezioni di domenica scorsa hanno vinto gli islamisti di Ennahda. Dunque per la Tunisia, l'apripista della primavera araba andata, le speranze sono già finite? È quanto è riecheggiato in questi giorni in molti commenti preoccupati sull'esito del voto a Tunisi. Ma questa lettura è un'altra banalizzazione del quadro che giorno per giorno va definendosi al di là del Mediterraneo.
Hanno vinto gli islamisti di Ennahda. Dunque per la Tunisia, l’apripista della primavera araba andata alle elezioni domenica scorsa, le speranze sono già finite? È quanto è riecheggiato in questi giorni in molti commenti preoccupati sull’esito del voto a Tunisi. A me, invece, questa lettura pare solo l’ennesima semplificazione del quadro che giorno per giorno va definendosi al di là del Mediterraneo.
Intanto, molto più che su chi vince e chi perde, un appuntamento elettorale finalmente libero dopo anni di voti pilotati andrebbe giudicato sul modo in cui si svolge. Da questo punto di vista le elezioni in Tunisia, a detta di tutti, sono state un modello. E non solo per il fatto che si sono svolte senza incidenti, ma anche per la vivacità e la voglia di partecipazione che hanno dimostrato. Molto più di tante parole credo sia eloquente un video sulla campagna elettorale che trovato sul blog The Arabist: si tratta di una candid camera un po’ particolare. In un quartiere di Tunisi una mattina all’improvviso ricompare una gigantografia di Ben Ali. Iniziano le occhiate, si forma il primo assembramento, la concitazione cresce, finché nel giro di un minuto qualcuno non si arrampica e va a rimuovere il ritratto dell’ex presidente-padrone. Per fare però una scoperta: sotto la gigantografia c’è un altro striscione con una scritta. Un invito ad andare a votare alle elezioni perché la democrazia non è mai un risultato acquisito una volta per tutte. Beh, credo che un Paese nel quale in una campagna elettorale circolano idee del genere sia una realtà interessante, indipendentemente dal fatto che a vincere siano gli islamisti oppure o no.
Della stessa idea è anche Rami Khoury. Nel suo commento sul quotidiano libanese The Daily Star sostiene con forza come il voto tunisino rappresenti un punto di riferimento per la democrazia in Medio Oriente. In nove mesi sono andati alle urne in un clima di pluralismo vero: vuol dire che è possibile anche qui, sostiene Khoury. Però hanno vinto gli islamisti di Ennahda, si obietta. Il punto vero è che l’islamismo è un ingrediente del mondo arabo di oggi che è illusorio pensare di rimuovere: bisogna farci i conti coinvolgendolo nelle trasformazioni. È una forza importante all’interno di queste società, certamente con le sue contraddizioni. Lo stesso modello che va per la maggiore oggi – quello dell’Akp di Erdogan in Turchia, a cui anche Ennahda dice di ispirarsi – ne ha risolto solo una parte. Ma è illusorio pensare che si possa voltare davvero pagina cancellando questa presenza. Come scrive Khoury, è logico che i tunisini abbiano votato quella che negli anni di Ben Ali era identificata come la principale forza di opposizione. E che adesso gli islamisti vogliano governare. Ma non è la stessa cosa che si trovino a farlo dopo questi nove mesi e dopo un’esperienza di democrazia reale vissuta. Perché adesso anche loro si troveranno a fare i conti con le due principali domande della piazza della primavera araba: giustizia sociale e riforme costituzionali che garantiscano che questo vento di libertà non sia passeggero. E dunque in Tunisia, più che in qualsiasi altro posto, si vedrà davvero se – come sostiene qualcuno – il vento della primavera araba ha cambiato dall’interno anche l’islamismo. Insomma: a Tunisi le incognite ci sono, ma esattamente come c’erano ieri.
Del resto l’alternativa alla via democratica è l’Egitto dove – guarda caso – la situazione è molto più preoccupante. Sempre su The Arabist a proporre il paragone è Ursula Lindsey, una giornalista che vive da tempo al Cairo e che in questa settimana ha seguito il voto a Tunisi. Il suo articolo è interessante per il raffronto sul modo in cui i due Paesi vanno alle elezioni: in Tunisia con voto vero, tenuto in un solo giorno, monitorato da osservatori internazionali, in un clima tranquillo; in Egitto con un processo che durerà mesi, con poteri degli organi che verranno eletti tutt’altro che definiti, con i copti costantemente minacciati dai salafiti. Certamente sono due Paesi molto diversi, con una storia e condizioni sociali differenti. Ma è un fatto ormai evidente a tutti che il modo in cui la giunta militare in Egitto sta gestendo la transizione è più un problema che un aiuto alla democrazia. Sarebbe un errore tragico attaccarsi di nuovo ai generali per evitare che «la parte sbagliata» vinca le elezioni anche in Egitto. Sarebbe solo il modo migliore per rafforzarla ulteriormente e impedire che anche gli islamisti voltino pagina.
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