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Il mondo (e le speranze) di Amal

Giuseppe Caffulli
4 ottobre 2011
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Se ci sono libri che lasciano un segno e toccano il cuore, il romanzo di Susan Abulhawa, "Ogni mattina a Jenin", è indubbiamente tra questi. Con realismo, delicatezza e struggente poesia, narra la tragedia di quattro generazioni di palestinesi costretti a lasciare la propria terra dopo la proclamazione dello Stato d’Israele nel 1948. Il romanzo si legge d’un fiato, non agita tesi politiche e non vuole dividere il mondo in buoni e cattivi.


Se ci sono libri che lasciano un segno e che toccano il cuore, il romanzo di Susan Abulhawa è indubbiamente tra questi. Si intitola Ogni mattina a Jenin, e racconta con realismo (ma anche con delicatezza e struggente poesia) la tragedia di quattro generazioni di palestinesi costretti a lasciare la propria terra dopo la proclamazione dello Stato d’Israele nel 1948.

Protagonista della storia è Amal, una ragazzina che si trova ben presto sbalzata dal villaggio natale e dall’affetto della famiglia in un orfanotrofio di Gerusalemme, dove viene mandata alla morte del padre e della madre periti in una incursione israeliana durante la guerra dei Sei giorni. Il mondo di Amal, che in arabo significa «speranza», è fatto di giochi, di amicizie, dei primi turbamenti adolescenziali. È fatto di affetti (il dolce ricordo del padre, della madre beduina – fiera e misteriosa) ma intessuto di dolore e morte: la perdita della terra, della patria, la vita nei campi-profughi, l’incubo della guerra, il rapimento del fratellino Ismail (che sarà adottato da una famiglia ebrea e diverrà David). Intrecciata alla vicenda di Amal, è la storia della Palestina dell’ultimo mezzo secolo, punteggiata dalla sue tragedie: il Settembre nero, le stragi di Sabra e Chatila, l’intifada, le speranze deluse di uno Stato palestinese. Emigrata negli Usa grazie a una borsa di studio, Amal si laurea in medicina, ma non riesce a soffocare il senso di spaesamento e l’inquiedutine che l’assale. Decide allora di tornare, per ricongiungersi alle sue radici. Troverà l’amore, si riappacificherà con se stessa, ritroverà l’affetto del fratello che credeva perduto: ma il prezzo da pagare sarà altissimo.

Capace di toccare costantemente la corda delle emozioni più profonde, il romanzo di Susan Abulhawa si legge d’un fiato. Pur incentrato sul drammatico scenario del conflitto israelo-palestinese, Ogni mattina a Jenin non agita tesi politiche e non si prefigge lo scopo di dividere il mondo in buoni e cattivi. Su entrambi i fronti, a ben vedere, ci sono segni di umanità che, come fiori sulle rocce, sembrano destinati a scomparire da un momento all’altro. Ma che, soprattutto grazie ad un gratuito gesto d’amore, riescono inaspettatamente a piantare solide radici.

Nata da una famiglia palestinese in fuga dopo la guerra dei Sei giorni, l’autrice ha vissuto i suoi primi anni in un orfanotrofio di Gerusalemme e si è trasferita  adolescente negli Stati Uniti, dove si è laureata in Scienze biomediche. In Ogni mattina a Jenin (opera prima in corso di pubblicazione in 22 Paesi), sembrano dunque riecheggiare molti elementi autobiografici.

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