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Fra Rufino il Giusto

Giampiero Sandionigi
7 ottobre 2011
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Fra Rufino il Giusto
Fra Rufino in una foto scattata a Gerusalemme nel 1974 in occasione della consegna della medaglia di «Giusto fra le nazioni».

La vicenda del francescano fra Rufino Niccacci non è ignota. Nel 1943-44 fu tra i membri di una rete clandestina che ad Assisi salvò la vita a centinaia di ebrei. Vogliamo riportare alla memoria questo religioso nell’anno in cui ricorre il centenario dalla nascita.


La domanda di Caino riecheggia nella coscienza di tutti: «Sono forse io il custode di mio fratello?». Nell’autunno del 1943 la risposta di fra Rufino Niccacci è un «sì» senza esitazioni. Un sì che allarga la cerchia della fratellanza agli sconosciuti che gli vengono affidati.

La vicenda di questo francescano umbro non è ignota, ma vogliamo riportarla alla memoria nell’anno in cui ricorre il centenario dalla sua nascita, avvenuta il 19 marzo 1911 a Deruta (Perugia), un borgo che si affaccia sul corso del fiume Tevere.

A 32 anni, padre Rufino è nel pieno del suo vigore di giovane uomo e ad Assisi svolge la funzione di padre guardiano della comunità di frati minori di San Damiano, il santuario poco fuori le mura, caro a san Francesco e primo luogo di clausura per santa Chiara e le sue sorelle povere. Tra le altre preoccupazioni, mentre la guerra infuria, Rufino ha quella di sfamare i suoi confratelli. Si ingegna, fa affidamento sulla carità della gente, sa di poter contare sulla sua famiglia d’origine, padre, madre, quattro fratelli e una sorella, mugnai da generazioni e coltivatori.

Dopo l’armistizio con gli Alleati annunciato l’8 settembre, l’Italia è sempre più un campo di battaglia. Le truppe tedesche sono diventate spietate forze d’occupazione che resistono con ogni mezzo all’avanzata del nemico. Molta gente abbandona le proprie case, chi per sottrarsi ai bombardamenti, chi per sfuggire agli arresti e alle persecuzioni. Alla città del mite patrono d’Italia accorrono in migliaia da ogni dove: nel biennio 1943-44 Assisi vede raddoppiare la propria popolazione con l’afflusso di almeno 4-5 mila sfollati. È soprattutto la Chiesa locale a farsi carico dei loro bisogni più urgenti (cibo, vestiario, un tetto, istruzione dei bambini). Il vescovo coordina gli aiuti avvalendosi della collaborazione di un giovane prete diocesano non ancora trentenne – don Aldo Brunacci – al quale mons. Giuseppe Placido Nicolini ha confidato che la Segreteria di Stato di Pio XII esorta a prestare ogni assistenza ai profughi e agli ebrei.

Mai nessun ebreo, prima d’allora, ha vissuto stabilmente ad Assisi. La guerra, però, ha cambiato le cose e tra coloro che ogni giorno si presentano alla basilica di San Francesco, per poi essere smistati qua e là, non pochi sono di stirpe ebraica (alla fine saranno almeno un centinaio, forse 300). Qualcuno s’è spinto quaggiù guidato da una speciale ammirazione per il Poverello d’Assisi: è il caso del professore universitario padovano Emilio Viterbi, con la moglie e le due figlie. Dare protezione a questa categoria di cittadini che rischiano la deportazione nei campi di sterminio equivale a schierarsi contro i nazi-fascisti e rischiare la vita. Il vescovo lo sa quando coinvolge padre Rufino. Deve parergli l’uomo giusto, in grado di assumersi i rischi del caso senza farsi schiacciare dalla paura.

La signora Graziella Viterbi è oggi tra i pochi sopravvissuti di quel periodo. All’epoca la figlia maggiore dell’accademico patavino era adolescente e alla cittadina umbra è rimasta legata in modo viscerale. Ricorda fra Rufino come «un personaggio focoso». «Bastava vederlo passare per Assisi – ci racconta – e ti sembrava che volasse. Era un frate moderno. Più un uomo che un frate, direi. Ha fatto del bene non solo a noi in quel momento, ma in seguito anche ad altri».

Il frate minore svolge il proprio compito con tutto il suo vigore. Procura viveri; accoglie giovani ebrei e soldati in fuga a San Damiano, rivestendoli del saio perché si mimetizzino; sistema altri in conventi di suore. Le clarisse di San Quirico, a due passi dall’episcopio, hanno una piccola foresteria che funge da pensione. Fra Rufino convince la badessa, suor Giuseppina Beviglia, ad accogliere un nutrito gruppo di ebrei, senza iscriverne le generalità nel registro degli ospiti. Monsignor Nicolini e padre Rufino comprendono che è essenziale fornire false generalità a queste persone, troppo riconoscibili con i cognomi che portano. Il francescano si rivolge a Luigi Brizi, un tipografo comunista che sta alla larga dalle tonache e gestisce una piccola bottega in piazza Santa Chiara. Mosso dagli ideali di solitarietà umana e di antifascismo che porta in cuore, anche Luigi (aiutato dal figlio Trento) scende in campo. Per mesi, nottetempo, la sua macchina a pedale stamperà carte identità false che consentiranno di salvare la vita a tutti gli ebrei rifugiati ad Assisi, ma anche ad altri, soccorsi dalle organizzazioni clandestine che fanno capo agli arcivescovi di Genova e Firenze (in quest’ultima militano anche Giorgio La Pira e Gino Bartali). San Quirico diventa un «ufficio anagrafe» alternativo: i moduli in bianco forniti dai Brizi vengono compilati con nomi falsi, fotografie, e timbri di comuni del sud Italia ormai sotto controllo alleato, così che la polizia fascista non possa verificarne l’autenticità.

Intanto la Wermacht ha requisito vari edifici in città per adibirli a ospedali militari. Comanda la piazza il colonnello medico Valentin Müller, un buon cattolico bavarese che ogni giorno va a Messa a San Francesco e allaccia rispettosi rapporti con il vescovo e padre Rufino. Grazie alle sue insistenze presso il comando tedesco e al lavoro diplomatico svolto dalla Santa Sede presso gli Alleati, Assisi viene considerata città ospedaliera e sottratta ai bombardamenti.

Pochissime persone sono a conoscenza della presenza di ebrei in città, ma le SS e la polizia politica fascista nutrono sospetti e controllano da vicino Nicolini e i suoi uomini di fiducia. Nel 1944 la situazione sembra precipitare: alcuni ospiti di San Quirico vengono arrestati durante un’uscita a Perugia; i poliziotti perquisiscono a fondo il convento delle clarisse e gli ebrei rimasti scampano alla cattura nascondendosi nelle grotte sottostanti. Di lì a non molto sia padre Rufino sia don Aldo vengono incarcerati, ma in seguito rilasciati per carenza di prove.

L’avanzata alleata pone fine all’incubo. Il 17 giugno 1944 le truppe anglo-americane entrano in città senza sparare un colpo. Il colonnello Müller in persona – a cui Assisi tributerà perenne riconoscenza – prima di ritirarsi ha vigilato affinché le retroguardie tedesche lasciassero la zona senza entrare nel centro storico per abbandonarsi a violenze e saccheggi.

Il governo militare di Assisi per un mese resta nelle mani di un giovane ufficiale delle truppe britanniche, il ventiseienne canadese Philippe Garigue. Molti anni più tardi, in un discorso pronunciato il primo aprile 1990 durante una commemorazione promossa dal Congresso nazionale degli italo-canadesi del distretto di Toronto e dal Congresso ebraico-canadese della regione dell’Ontario, ricorderà così fra Rufino: «Ricordo esattamente quando incontrai per la prima volta Padre Rufino Niccacci. I miei ricordi iniziano quando egli era seduto nel mio nuovo ufficio nel Municipio, pochi minuti dopo il mio arrivo. Avevo chiesto di incontrare alcuni cittadini in vista, e credo che egli fu incluso su suggerimento di un capo partigiano. Avevo convocato quell’incontro per conoscere ciò che era accaduto, di cosa c’era bisogno e cosa si poteva o si doveva fare. In quella riunione risultò chiaramente che la situazione in Assisi era diversa da quella di altre città italiane in cui ero stato. Normalmente, quando la battaglia spingeva i tedeschi verso nord, nelle prime ore della liberazione c’erano momenti di tensione e si pareggiavano i conti tra quelli che avevano preso diverso partito nella guerra. Talvolta la giustizia era troppo sommaria. Uno dei motivi per costituire un governo militare alleato quando la guerra era ancora in corso era prevenire tutto questo. Con mia sorpresa, in Assisi trovai ben pochi di questi scontri. (…) Pian piano risultò che c’era stata una rete di gente, frati francescani e anche laici, che si erano dati da fare per aiutare ebrei italiani e altri a sfuggire ai tedeschi. (…) Mi ci vollero alcuni giorni per convincermi del tutto che quello che era accaduto era veramente straordinario. Vidi Padre Rufino praticamente ogni giorno. (…) Durante quelle settimane gli chiesi consiglio e informazioni. (…) Poco a poco scoprii l’altro lato della sua personalità. Egli non era soltanto un leader tutto dedito all’azione. Era anche un’anima profondamente spirituale, il cui ideale di vita era quello del suo Ordine, e il cui modello era san Francesco. (…) Si comportava come uno maggiormente dedito al lavoro fisico che alla vita ascetica. Era costantemente attivo, sembrava instancabile. C’era sempre gente che voleva vederlo, e attraversare la città con lui significava essere fermati ad ogni passo. La mia convinzione personale era che egli sarebbe stato un eccellente sindaco di Assisi».

Nel 1974, durante un viaggio in Terra Santa, padre Rufino Niccacci viene insignito del riconoscimento di Giusto fra le nazioni, attribuito dallo Stato di Israele ai non ebrei che a rischio della propria vita salvarono degli ebrei dall’Olocausto. Molti anni sono trascorsi dal periodo assisano. Dopo quella parentesi padre Rufino ha continuato la sua vita da frate come tanti altri suoi confratelli, ma nel cuore ha alimentato una sete di comunione e un sogno che fino all’ultimo ha cercato di realizzare: dar vita a una «casa della riconciliazione» dove ebrei e cristiani potessero incontrarsi, capirsi e vivere insieme.

Sta lavorando a quel progetto nella sua natìa Deruta, quando un infarto pone fine alle sue fatiche. Il religioso muore il 16 ottobre 1976. Il desiderio di donare gli organi ed essere cremato, in segno di solidarietà con i milioni di vittime della Shoah, non può essere esaudito. Le sue spoglie riposano a Deruta, nella tomba di famiglia.

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