Il volume Caos arabo è un ottimo punto di partenza per capire dove affondino le radici della «Primavera araba» in corso. Il curatore, Riccardo Cristiano, vi ha raccolto una serie di inchieste apparse tra il 2008 e il 2010 sui maggiori periodici e su vari blog in lingua araba. Gli articoli illuminano realtà spesso nascoste agli occhi di noi lettori europei, mettendo a nudo le ferite delle società nordafricane e del Vicino Oriente: dalla Siria all'Egitto, dall'Autorità Palestinese alla Tunisia e alla Libia.
C’è la storia di Mustafa Ismail, avvocato curdo scomparso nelle carceri siriane; quella di Rabih, 10 anni, palestinese, che vende indirizzi email nel campo profughi di Burj al-Barajna (Libano); quella di Rana, finita a 13 anni nel racket della prostituzione a Beirut. Sono solo alcuni dei personaggi al centro delle cronache di giornalisti arabi indipendenti raccolte nel libro Caos arabo, curato da Riccardo Cristiano.
Giornalista Rai profondo conoscitore del Medio Oriente, dove è stato corrispondente dal 1990 al 2001, Cristiano ha tradotto una serie di inchieste apparse tra il 2008 e il 2010 sui maggiori periodici di lingua araba, dal quotidiano panarabo Al Hayat all’egiziano Al-Masri al-Youm, dal blog palyouthwrites.org a skeyes.wordpress.com (Samir Kassir Eyes), portale di informazione specializzato sulle violazioni della libertà di informazione in Libano, Siria, Giordania e Territori palestinesi fondato dalla vedova del giornalista Kassir assassinato a Beirut nel 2005.
Il libro costituisce un ottimo punto di partenza per capire dove affondino le radici «invisibili» della «Primavera araba» in corso. E come la corruzione, la repressione del dissenso, la povertà diffusa, la negazione sistematica dei diritti delle donne e dei diritti del lavoro siano tra le istanze comuni che, pur nelle differenze rispetto a Tunisia, Egitto e Libia, stiano scuotendo le fondamenta di inamovibili regimi arabi. A cominciare da quello di Damasco. Tra le inchieste più rivelatrici, inevitabilmente pubblicate anonime, figurano proprio quelle sulla Siria degli «scomparsi», ovvero sugli intellettuali e attivisti inghiottiti dai servizi di sicurezza solo perché criticavano il governo. O quella sulla impossibile reintegrazione sociale di chi esce dal carcere dopo anni di reclusione per reati d’opinione: «Non posso dire a nessuno di esser stato un detenuto politico, perché tutti tremano alla semplice idea di essere in qualche modo collegati a un dissidente» racconta Asad, di Aleppo, uscito dopo 15 anni di carcere. La stessa privazione dei diritti civili fino a tre anni dopo il rilascio, denunciano i giuristi, impedisce di avere un lavoro o di frequentare una scuola ai dissidenti che riemergono dalle famigerate galere siriane: «In questo modo s’intende abbattere lo status sociale, oltre a impedire di essere indipendente», scrive l’articolista.
Ma il «caos», e la difficoltà di trovare il bandolo della matassa nei cambiamenti che stanno sconvolgendo il Medio Oriente, non riguarda solo il dissenso. Memorabili le inchieste firmate da due giovani croniste vincitrici del Premio Samir Kassir sul racket della prostituzione in Libano, Corpi femminili in affitto a Beirut, e sullo sfruttamento del lavoro minorile femminile in Egitto, Le sigaraie del Cairo. O quelle sulla condizione degli immigrati che cercano un lavoro in Libano, Giordania o nei Paesi del Golfo. Per non parlare degli orfani: sono 5 milioni solo in Iraq, vittime dell’accattonaggio, dello sfruttamento sessuale, colpiti dalle malattie causate dalle armi all’uranio impoverito senza che le organizzazioni non governative riescano a trarli in salvo.
Israele, convitato di pietra, resta volutamente sullo sfondo di questa indagine. Il libro non si limita a fornire uno spaccato dall’interno delle diverse società del mondo arabo a partire dalla debolezza dello Stato, dai rischi di nascere donna in Medio Oriente, dal dramma irrisolto dei profughi palestinesi. Ma costituisce anche una riflessione della stampa su se stessa in Paesi dove i giornalisti non proni al potere rischiano ogni giorno la pelle, oltre alla censura: in Siria nel solo 2009 dieci giornalisti sono stati condannati al carcere e 224 siti web sono stati chiusi. In Libia è ancora vivo il ricordo di Dayf al-Ghazal, coraggioso cronista che raccontava la repressione e la corruzione nella Libia di Muhammar Gheddafi, torturato fino al momento in cui è morto orrendamente mutilato, a Bengasi nel 2005.
Nei Territori palestinesi la situazione non è poi tanto migliore: a causa della debolezza della cultura politica, scrive Amjad Samhan, «è proibito far salire la tensione tra Hamas e Fatah» e molti si limitano a «compilare anziché dare notizie». Viste le vendette e le violenze che hanno colpito i cronisti che si siano occupati della corruzione di personalità di spicco palestinesi, molti rinunciano a criticare le leadership e a indagare i cambiamenti sociali in atto: «Penso che ci si occupi di più dei comportamenti delle forze di occupazione israeliane e meno della politica interna per paura delle conseguenze» ammette un collaboratore di Gaza dell’Associated Press. L’inchiesta, che denuncia «la paura e l’ansia» di diverse voci del giornalismo palestinese, è firmata ma non a caso è stata pubblicata su Al-Tamasoh, un periodico dell’Oman.