Con l’attenzione concentrata sulla Libia stiamo tutti seguendo un po’ distrattamente quanto sta accadendo tra il Sud di Israele, il Sinai e la Striscia di Gaza. Ma facciamo molto male. Perché è ormai da più di una settimana che fiammate di violenza - con lanci di razzi da Gaza e raid aerei israeliani - si alternano a colpi di freno. In una situazione che è molto più complessa di quanto sembri.
Con l’attenzione concentrata sulla Libia stiamo tutti seguendo un po’ distrattamente quanto sta accadendo tra il Sud di Israele, il Sinai e la Striscia di Gaza. Ma facciamo molto male. Perché è ormai da più di una settimana che fiammate di violenza – con lanci di razzi da Gaza e raid aerei israeliani – si alternano a colpi di freno. In una situazione che è molto più complessa di quanto sembri.
Tutto è cominciato giovedì 18 con un attacco terroristico – in grande stile, ma alquanto anomalo – contro un autobus israeliano a qualche chilometro da Eilat, la città israeliana sul Mar Rosso. Un attentato costato la vita a otto israeliani a cui il governo Netanyahu nel pomeriggio stesso ha risposto con un raid aereo su Gaza (con vittime anche civili) per colpire i vertici dei Comitati di resistenza popolare, una formazione palestinese ritenuta dall’intelligence israeliana responsabile dell’eccidio. Un commando di questa milizia – si è detto – da Gaza si sarebbe spostato in Egitto da dove, dal Sinai, avrebbe poi colpito. A complicare le cose era stato poi il fatto che nella caccia a questi miliziani l’esercito israeliano ha sparato per errore ad alcuni soldati di frontiera egiziani, uccidendone cinque e aprendo la più grave crisi diplomatica con il Cairo da quando esiste il trattato di pace voluto dall’allora presidente egiziano Anwar al-Sadat, nel 1979.
Il problema è che più passano i giorni e più i conti non tornano, confermando i dubbi di chi fin dal primo momento diceva che i responsabili dell’attentato di Eilat non stanno a Gaza. Da subito, infatti, Hamas sta facendo il «minimo sindacale» per rispondere ai raid israeliani; vuole evitare che il conflitto si allarghi: la maggior parte dei lanci di razzi, infatti, sono stati rivendicati dalle altre milizie e nei giorni scorsi la forza al governo nella Striscia aveva accolto con una strana faciilità l’iniziativa di un cessate il fuoco mediato dai generali al potere al Cairo. Ora – poi – salta fuori che probabilmente nemmeno le altre milizie palestinesi hanno partecipato all’attacco di Eilat: a scriverlo è una giornalista dagli ottimi contatti a Gaza come Amira Hass, che su Haaretz ha raccontato una cosa molto semplice: nella Striscia nessuno ha pianto gli uomini del commando uccisi negli scontri a fuoco avvenuti tra Eilat e il confine con l’Egitto. Il che vuol dire una cosa molto semplice: non venivano da Gaza, ma proprio dall’Egitto. Chi c’è, allora, dietro questi miliziani? Chi – a Damasco o a Teheran – è sempre più in imbarazzo per la repressione messa in atto da Bashar al-Assad sta cercando un diversivo per spostare l’attenzione altrove. E qual è l’anello più debole di tutto il Medio Oriente? Ovviamente Gaza. Tanto più che anche il governo israeliano in questo mese di agosto era in grossa difficoltà sul fronte interno per le proteste sociali. E il ricompattarsi di fronte a una minaccia esterna potrebbe fargli molto comodo.
La verità è che a Damasco oggi si sta combattendo una guerra che non è solo pro o contro Assad, ma riguarda l’assetto futuro di tutto il Medio Oriente. Non a caso i sauditi – che non sono proprio un esempio di democrazia – stanno sostenendo a spada tratta “gli oppositori della dittatura”. Dall’altra parte l’Iran non può permettersi di perdere Damasco. E ha cominciato a lanciare segnali: l’agenzia Reuters nei giorni scorsi ha dato un’altra notizia molto interessante da questo punto di vista. Pare, infatti, che Teheran abbia cominciato a tagliare i fondi ad Hamas, non digerendo il fatto che i palestinesi non stiano più con Assad. In più – poi – c’è tutta la questione del Sinai, con le operazioni dell’esercito egiziano contro i gruppi islamisti che qui hanno conquistato spazio nei mesi seguiti alla caduta di Mubarak (su questo specifico aspetto è molto interessante il reportage di Al Masry al Youm che segnaliamo qui sotto).
Tutto questo per dire che i lampi di guerra tra Gaza e il Sud di Israele sono una questione molto complessa. E che non promette niente di buono per almeno tre ragioni. 1) L’ennesima prova di inconcludenza data dalla leadership palestinese: si può parlare all’infinito del voto di settembre all’Onu come dell’appuntamento decisivo per la Palestina, ma i fatti dicono che – come volevasi dimostrare – dopo più di tre mesi l’accordo per il governo di unità nazionale è rimasto lettera morta; in questi giorni, nel bel mezzo del baillame, Abu Mazen ha rinviato per l’ennesima volta le elezioni municipali che dovevano tenersi a ottobre. È dal 2006 ormai che in Palestina non c’è una istituzione sancita da un voto popolare. E il risultato di tutto questo sono i gruppi alla mercé di interessi esterni alla Palestina. 2) La mancanza di una prospettiva politica da parte di Israele: il problema non è solo Benjamin Netanyahu; in tutti questi mesi non si è sentito un politico israeliano proporre un ragionamento serio su quanto sta accadendo nel mondo arabo. Per lo stesso movimento delle tende – di cui parlavamo già qualche settimana fa e che sta preparando per il 3 settembre una grande manifestazione sociale in cui mira a portare in piazza un milione di persone (in un Paese di meno di otto milioni di abitanti) -, questo tema è assolutamente tabù. Ma può davvero la sindrome dell’assedio essere l’unica risposta? 3) L’estrema debolezza di Barack Obama, anche lui uscito con le ossa rotte dal Medio Oriente dopo essere stato incapace di tener ferma la barra sulla questione degli insediamenti.
Bolle sempre di più la pentola. E non è detto che bastino ancora a lungo i fragili cessate il fuoco a impedire un esplosione ancora più dirompente.
—
Clicca qui per leggere l’articolo di Amira Hass
Clicca qui per leggere la notizia della Reuters sul taglio dei finanziamenti iraniani ad Hamas
Clicca qui per leggere il reportage di Al Masry al Youm sulla situazione nel Sinai