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Moshe Kaveh: Un nuovo inizio per il Medio Oriente

Manuela Borraccino
23 agosto 2011
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Moshe Kaveh: Un nuovo inizio per il Medio Oriente
Il professor Moshe Kaveh.

Nei giorni della caduta di Gheddafi il rettore della Bar Ilan University Moshe Kaveh invita a guardare con “ottimismo” le opportunità di progresso che si stanno aprendo in tutto il Medio Oriente. “Non sappiamo quanto ci vorrà, ma il mondo intero e non solo la nostra regione potranno beneficiare dal cammino intrapreso dai popoli arabi per porre fine alle dittature”, dice il professore a margine del Meeting di Rimini.


(Rimini) – Fisico di fama internazionale, originario di Tashkent (Uzbekistan), 68 anni, autore di centinaia di pubblicazioni scientifiche e dal 1996 presidente della Bar Ilan University, massima istituzione accademica di orientamento religioso in Israele oggi frequentata da 30 mila studenti, il professor Moshe Kaveh ha partecipato lunedì all’incontro “Senso religioso, alla radice dell’università” al Meeting di Rimini, con il rettore della Catholic University of America John Garvey e il rettore dell’Università cattolica di Milano Lorenzo Ornaghi. Ha sottolineato come il valore aggiunto di un’università di ispirazione religiosa sia quello di “trasmettere non solo un patrimonio sapienziale ma un modo di vivere basato sull’etica. Per costruire i cittadini di domani abbiamo il dovere di insegnare innanzitutto il rispetto delle opinioni degli altri” ha detto durante l’incontro”.

Professor Kaveh, anche in Israele, come in Spagna, le proteste per il carovita sono partite dagli studenti. Come legge questo fenomeno?
Molti dei miei studenti hanno partecipato alle manifestazioni di Tel Aviv. Devo dire, da insegnante, che le proteste hanno fatto emergere l’assenza di un dialogo strutturale, che è vitale per qualsiasi Stato, fra la classe dirigente ed i giovani del Paese: i giovani rappresentano il futuro delle nostre società e quindi ascoltarli è il miglior investimento che si possa fare. Ma forse per via di tutte le emergenze che Israele ha attraversato nella sua breve vita, appena 62 anni, questo dialogo è mancato. Io credo sinceramente che il governo abbia preso atto di aver commesso degli errori: l’istituzione di una commissione governativa per studiare le soluzioni ai problemi è il segnale che ha preso sul serio la protesta.

Che ruolo potrà avere questo movimento nel correggere la rotta delle politiche economiche?
Io incoraggio vivamente il governo ad includere alcuni fra gli studenti nel lavoro che la Commissione sta portando avanti per trovare delle soluzioni. E questo per far diventare questa protesta “responsabile”: intendo dire che per farla passare dalla fase della denuncia e della critica all’analisi di possibili vie d’uscita è necessario che tutti, anche i più giovani, si sforzino di presentare delle idee praticabili. Nel momento in cui viene instaurato un dialogo tra le parti, allora si entra in un processo responsabile. É facile dire: “queste politiche non funzionano”. Più difficile è aiutare chi governa a rispondere alle domande: “le casse sono vuote, dove pensate che possiamo trovare i soldi?”. Io penso che sarà molto utile per chi oggi studia e si prepara a far parte domani della classe dirigente del Paese, in varie discipline, partecipare in modo attivo al processo di elaborazione di soluzioni e del farsi delle decisioni.

Per la prima volta in 60 anni il dibattito pubblico nel suo Paese è dominato dalle questioni sociali e non dalla sicurezza. Che cosa rappresenta questo cambiamento?
Fin dalla sua nascita Israele è stato dominato da molteplici sfide, la prima delle quali è stata la lotta per la sopravvivenza. Sono state le circostanze a determinare le priorità dello Stato e della stessa storia del nostro popolo: prima la sicurezza, con il peso che hanno avuto in Israele le Forze armate e la tecnologia bellica, poi la Medicina per rispondere alle guerre che ha dovuto affrontare il Paese. Non c’è da sorprendersi, perciò, se fino ad oggi è stata la sicurezza a far la parte del leone. Ma 62 anni sono un soffio nella storia di una nazione. Perciò penso che oggi stiamo assistendo ad un cambiamento in un certo senso fisiologico. In nessun Paese al mondo ragazzi e ragazze di 18 anni entrano nell’età adulta donando tre anni della propria vita all’esercito, rischiando in prima persona per la difesa dello Stato; e dopo l’esercito entrano all’università a 21 anni, imparano un mestiere, cercano un lavoro, costruiscono una famiglia, crescono dei figli e continuano a vivere da “riserve”, pronti a rientrare nell’esercito alla prima emergenza… Chiediamo molto ai nostri giovani. Perciò penso che il passaggio di oggi segnali che forse, dopo aver assicurato la sopravvivenza al nostro Paese, è tempo di concentrarci sul tipo di Paese che vogliamo costruire, quale solidarietà e Stato sociale vogliamo avere, quali opportunità vogliamo poter offrire ai più poveri. Ed è per questo che sono ottimista su quello che stiamo vivendo: sono sicuro che si troveranno delle soluzioni.

Dopo la caduta di Ben Ali in Tunisia e di Mubarak in Egitto, è il giorno della fuga di Gheddafi da Tripoli. Che direzione prenderanno le rivolte della “Primavera araba”?
Da fisico, so che è praticamente impossibile difficile ravvisare delle dinamiche nel “caos”. É troppo presto per sapere che futuro si sta aprendo per la regione. Quel che è certo è che cambiamenti epocali di questa portata aprono finestre di opportunità per tutti: non solo i nostri popoli ma il mondo intero trarrà beneficio da quello che sta accadendo, anche se ci vorranno anni per vedere i risultati. É certo che almeno in parte questi cambiamenti non sono stati imposti con la forza ma con l’assunzione di responsabilità da parte dei cittadini, decisi a porre fine alle ingiustizie e a costruire delle società civili in pace gli uni con gli altri, nel dialogo e nel rispetto delle varie comunità.

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