L'ex direttore dell'Agenzia internazionale per l'energia atominca, e premio Nobel per la pace, Mohammed El Baradei illustra i limiti della diplomazia nucleare in questo suo "L'età dell'inganno. Le minacce nucleari e l'ipocrisia delle nazioni". El Baradei offre uno sguardo d'eccezione sulle dispute nucleari che dalla fine della Guerra fredda tengono banco nelle relazioni internazionali.
Nata per essere «gli occhi e le orecchie della comunità internazionale» sul nucleare, oggi ai Paesi che intraprendono illecitamente un programma bellico l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) appare piuttosto come «uno sbirro stremato con gli occhi bendati».
L’ex direttore dell’Aiea, e premio Nobel per la pace, Mohammed El Baradei illustra con questa immagine i limiti della diplomazia nucleare in L’età dell’inganno. Le minacce nucleari e l’ipocrisia delle nazioni.
Esperto di diritto internazionale per anni ambasciatore egiziano all’Onu, testimone dell’ascesa e declino del processo di disarmo in qualità di funzionario dal 1984 e segretario generale dell’Aiea dal 1997 al 2009, El Baradei offre uno sguardo d’eccezione sulle dispute nucleari che dalla fine della Guerra fredda tengono banco nelle relazioni internazionali, dall’Iraq all’Iran passando per i casi della Libia e della Corea del nord. Proprio la decisione della Libia alla fine del 2003 di smantellare il programma di armi di distruzione di massa, mentre emergevano le ambizioni nucleari dell’Iran, confermò l’avvento di un sistema di approvvigionamenti nucleari illecito, il cosiddetto «bazar atomico» messo in piedi dallo scienziato nucleare e imprenditore pachistano Abdul Qaader Khan in più di 30 Paesi, dalla fine degli anni Ottanta, per un giro d’affari di centinaia di milioni di dollari, che riscosse l’interesse anche di al Qaeda.
Uno dei fili conduttori del poderoso saggio è il conflitto alimentato per anni dall’amministrazione Bush nei confronti dell’Aiea, «ignorata o trattata da acerrima nemica degli Usa» in particolare nel caso della guerra in Iraq del 2003. El Baradei rivela con dovizia di particolari le innumerevoli pressioni esercitate dal Dipartimento di Stato americano sugli ispettori dell’Aiea per trovare prove che incriminassero il regime di Saddam, la consapevolezza da parte dei generali iracheni che la guerra ci sarebbe stata in ogni caso, le prove emerse negli anni successivi che George W. Bush e Tony Blair avessero pianificato l’invasione dell’Iraq già nel 2002, la manipolazione dei media anglosassoni, le divisioni tra i leader del mondo arabo che «non avendo una posizione unitaria, non ebbero quasi voce in capitolo su una guerra sferrata al cuore della loro regione».
La catastrofe irachena, con oltre 1 milione e 200 mila vittime, i milioni di mutilati, di profughi e di famiglie private dei loro mezzi di sostentamento, i 4.400 soldati americani morti, rende indispensabile «valutare come applicare alle crisi future la lezione impartita da questa tragedia», soprattutto rispetto all’Iran, dove si potrebbero generare «effetti secondari persino peggiori per la sicurezza mondiale».
Proprio il caso dell’Iran, rimarca El Baradei svelando nei dettagli il negoziato avviato nel 2002 sul programma nucleare, è emblematico delle nuove dinamiche che si sono affermate nei rapporti tra le nazioni. Da una parte il ricorso allo strumento dell’inganno, la taqqiya nella teologia sciita, con l’Iran che ha omesso per anni di fornire all’Aiea le informazioni richieste sul programma nucleare, pur rivendicando che l’arricchimento dell’uranio era a fini civili: fin dal 2003 la scoperta di materiale e impianti mai dichiarati rese evidente «l’inganno che in modo inquietante era stato perpetrato dai più alti livelli del governo iraniano» scrive, creando un clima di sfiducia e di diffidenza. Dall’altra «l’ipocrisia» delle potenze nucleari, in particolare Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna, con la politica di «due pesi e due misure» e la miopia di non voler vedere il nesso tra il fallimento del disarmo e la corsa al nucleare: in un’area del mondo come il Medio Oriente, rimarca il diplomatico, dove il rispetto è la base di qualsiasi dialogo, il malcelato complesso di superiorità dell’Occidente e l’assenza di pari pressioni su Israele per lo smantellamento delle sue testate nucleari sono state tra le cause del mancato raggiungimento di un accordo con l’Iran, al quale si era andati vicini nel 2009 grazie al nuovo clima instaurato dal presidente Obama ma che è poi sfumato a causa dell’irrigidimento delle autorità iraniane in politica interna ed estera dopo i moti dell’Onda verde.
Illuminanti le pagine nelle quali El Baradei esplora la psicologia della corsa al nucleare: i casi dell’Iran e della Corea del nord hanno dimostrato come le politiche di isolamento e di sanzioni siano servite soltanto a stimolare il senso di orgoglio nazionale e abbiano trasformato il progetto nucleare in una priorità nazionale. Ma più in profondità, rimarca, le ragioni vanno cercate «nelle disparità economiche tra nord e sud del mondo, nell’asimmetria del sistema globale di sicurezza con i suoi doppi standard, nelle tensioni che si vanno inasprendo in alcune regioni». In Medio Oriente, ad esempio, il caso di Israele è emblematico di come «la proliferazione genera proliferazione».
Questi temi e la deterrenza nucleare di Israele furono al centro del colloquio che il diplomatico ebbe a Gerusalemme nel luglio 2004 con l’allora premier israeliano Ariel Sharon, in un colloquio «sostanziale, condotto con tono vivace e irriverente», alla fine del quale, per la prima volta in assoluto dalla fondazione dello Stato di Israele, Sharon «si impegnò a considerare, nell’ambito del processo di pace arabo-israeliano, l’istituzione di una zona libera da armi nucleari in Medio Oriente». In seguito, racconta, «alcuni fra coloro che avevano presenziato all’incontro cercarono di attenuare ciò che Sharon aveva detto», e i media egiziani e arabi con le loro pesanti critiche per la mancata ispezione al sito nucleare di Dimona (che l’Aiea non può condurre, visto che Israele non ha aderito al Trattato di non proliferazione) fuorviarono l’opinione pubblica araba, rafforzando l’immagine del «doppio standard» applicato a Israele.
Mohammed El Baradei ha deciso di togliersi più di un sassolino dalla scarpa in questo saggio di grande interesse, nel quale non si limita a rivelare retroscena di politica internazionale ma va al cuore del problema della non proliferazione, che sta nella «asimmetria tra chi ha e non ha il nucleare, esacerbata dalla mancanza di progressi sul disarmo nucleare». Un saggio che si ferma al 2009 e che non affronta quindi la «Rivoluzione egiziana» di inizio 2011, ma che, uscito in contemporanea in Gran Bretagna, Germania, Olanda, Spagna, Portogallo, Stati Uniti, Brasile e in diversi Paesi di lingua araba, ha l’evidente scopo di candidare Mohamed El Baradei, considerato in patria un illustre giurista senza il carisma del leader politico, alla guida dell’Egitto dopo l’uscita di scena di Mubarak.