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Iraq. Noi figlie di un dio minore

Manuela Borraccino
22 luglio 2011
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Iraq. Noi figlie di un dio minore
Madre e figlia irachene nella cucina di casa, mentre all'esterno sosta una pattuglia di militari statunitensi.

La sharia non c’entra, assicura. «Con il matrimonio a ore i religiosi sciiti non fanno che coprire una forma di prostituzione minorile ammantandola di legalità: ma sempre di vendita di bambine si tratta». Non è l’unica denuncia della scienziata irachena Souad N. Al Azzawi. Ingegnere ambientale, autrice nel 2008 di un rapporto sulle malattie sconosciute comparse in Iraq a causa delle armi all’uranio impoverito usate dalle truppe Usa, la Al Azzawi si è rifugiata in Siria dopo esser scampata a diversi attentati che hanno decimato la comunità scientifica irachena. L’occupazione americana, hanno ammesso gli ultimi rapporti delle Nazioni Unite, ha distrutto 40 anni di conquiste di diritti civili per le donne in Iraq: «Eravamo la nazione più istruita del mondo arabo, oggi più del 50 per cento delle donne sono analfabete e disoccupate per l’oscurantismo medievale imposto dal governo corrotto filo-iraniano», ci spiega in questa intervista.

Professoressa, lei ha definito il declino della condizione della donna in Iraq «il risultato dell’aggressione sferrata dagli Usa». Non le sembra una posizione troppo forte?
Parlano i numeri. A partire dagli anni Settanta, le leggi promulgate dal partito Baathista sull’istruzione obbligatoria avevano portato la condizione della donna ad uno dei livelli più alti della regione. Nel 1980 le donne rappresentavano il 46 per cento degli insegnanti iracheni, il 29 per cento dei medici, il 70 per cento dei farmacisti. Nel 1991, quando io stessa sono rientrata in Iraq dal Colorado per divenire direttrice dei Programmi di dottorato della Facoltà di Ingegneria ambientale dell’Università di Baghdad, le docenti donne nelle facoltà e nei centri di ricerca erano più del 30 per cento del totale. L’emancipazione era stata resa possibile anche dalle garanzie costituzionali di pari opportunità, con un sistema di istruzione misto per maschi e femmine, che ha rafforzato nelle donne l’autonomia e la sicurezza in se stesse. Nel 1990 le donne rappresentavano il 67 per cento del corpo docente iracheno fra elementari, superiori e università.

Che cosa è rimasto oggi di quelle conquiste?
L’arretramento della condizione delle donne in Iraq è iniziato con la guerra del Golfo del 1991 durante la quale, come hanno ammesso le Nazioni Unite, i raid anglo-americani hanno devastato le infrastrutture civili irachene comprese quelle educative; è proseguito con 12 anni di durissimo embargo economico e il colpo di grazia è arrivato nel 2003, quando sono state smantellate le forze di sicurezza irachene e il Paese è piombato nel caos. I numeri degli insegnanti torturati, assassinati, costretti all’esilio parla da sé. L’occupazione americana ha inflitto una battuta d’arresto al cammino dei diritti delle donne imponendo un governo religioso fondamentalista filo-iraniano, perché gli sciiti hanno aiutato gli Usa a impossessarsi del Paese.

Qual è la politica dell’attuale governo iracheno nei confronti delle donne?
I politici attuali pensano che le donne dovrebbero stare chiuse in casa come schiave adoranti dei mariti: vengono dissuase dallo studio e dal lavoro dal clima di oscurantismo medioevale, di intimidazione e di usanze tribali nel quale è stato gettato il Paese. Le ragazze non possono andare all’università se non coperte dalla testa ai piedi e accompagnate da padri o fratelli per evitare di essere rapite, torturate o violentate. Non solo: il governo tratta le donne come oggetti sessuali con l’avallo al «matrimonio a tempo» (il cosiddetto muta’a, un contratto con il quale la famiglia della ragazza riceve una dote per cedere la figlia a un cliente – ndr), che non ha niente a che vedere con la sharia. In realtà si tratta di una forma di prostituzione coperta con la religione, con migliaia di ragazzine con meno di 14 anni costrette a prostituirsi: una pratica che non ha fatto altro che aumentare il traffico di esseri umani.
Sotto l’occupazione americana le donne sono state costrette a lasciare la scuola e il lavoro a causa della povertà, dell’insicurezza, della detenzione ingiusta e illegale dei capifamiglia. Il sistema sanitario è stato gravemente danneggiato. È per questo che oggi ci ritroviamo con cinque milioni di orfani, più di due milioni di vedove e quattro milioni di profughi in gran parte diplomati e qualificati. Ci ritroviamo con un tasso di analfabetismo femminile che è uno dei più alti al mondo: ci sono aree dell’Iraq dove il 70 per cento delle donne risulta  analfabeta.

Qual è stato a suo avviso il ruolo delle famiglie cristiane nella resistenza contro il fanatismo e la violenza che hanno investito il Paese?
Come altre persone istruite della popolazione, le donne e le famiglie cristiane stanno lottando non soltanto contro il fanatismo del governo ma anche contro quello che l’occupazione ha portato all’Iraq, ovvero l’entrata nel Paese di milizie legate ad al-Qaeda e all’Iran. Per porre fine al sostegno alla resistenza nazionale in Iraq, questi miliziani di al-Qaeda attaccano i civili con bombe e attentati in aree affollate, aggrediscono donne e ragazzi solo perché indossano jeans, assaltano chiese, moschee e centri commerciali per rendere un inferno la vita in Iraq. Si sa che c’erano città e villaggi cristiani a est di Mosul e nel nord dell’Iraq ben prima dell’avvento dell’islam. Nel corso della storia hanno vissuto pacificamente con i musulmani e gli ebrei potendo praticare la loro fede. Ma con l’occupazione americana la maggior parte di questi villaggi è stata assaltata dalle milizie del Kurdish Beshmerga che sono sostenute e addestrate dagli occupanti americani (l’ultimo episodio attribuito a queste milizie risale al 15 maggio a Kirkuk, quando un cristiano di 29 anni, padre di tre figli, è stato ucciso e fatto ritrovare per strada con gli occhi cavati dalle orbite e altri orribili segni di torture – ndr). Squadre della morte sono riuscite ad allontanare migliaia di famiglie dai loro villaggi con assassinii, bombe, sequestri e attraverso l’arresto illegale. Le hanno costrette ad andarsene fuori dal Paese per aggiungere i loro territori al Kurdistan iracheno. In altre parole stanno tentando di cancellare la loro identità assira e si considerano curdi e basta.

Quali sono i mezzi della resistenza?
Le donne irachene stanno resistendo all’occupazione con tutti i mezzi possibili e a tutti i livelli, compresi quelli della lotta armata. Tengono al sicuro le loro famiglie e i figli mentre i mariti lottano contro l’occupazione, sono in prigione, vengono uccisi o scompaiono. Insegnano ai figli a combattere per l’indipendenza e i diritti umani del Paese. Continuano a lavorare duro per mantenere quel che è rimasto di buono nel loro Paese ferito. Per questo hanno bisogno del sostegno delle altre donne libere nel mondo, che sono loro sorelle, figlie e madri. Una madre americana che ha perso il figlio in questa guerra ha gli stessi sentimenti di una madre irachena. Questa situazione non è frutto di una guerra dei popoli americano o britannico bensì degli interessi economici di grandi gruppi multinazionali. E noi siamo tutti vittime. Dovremmo prendere posizione e difendere la lotta gli uni degli altri per avere le stesse opportunità di vita, libertà, prosperità. E soprattutto il diritto a vivere in pace.

Che aiuto vi aspettate a livello internazionale in questa campagna?
L’opinione pubblica internazionale può sostenere la lotta delle donne irachene chiedendo il ritiro totale delle truppe americane e la fine dell’occupazione. Inoltre potrebbero invitare nei fori internazionali le rappresentanti delle donne irachene che si stanno battendo per l’indipendenza, in modo da far conoscere quello che sta avvenendo in Iraq e richiamare l’attenzione pubblica sulla condizione delle donne e dei bambini iracheni. Possono aiutarle a pubblicare studi e a organizzare campagne di sensibilizzazione che aiutino a porre fine all’arresto illegale e alla tortura delle donne.
E infine dovrebbero istituire delle borse di studio per permettere alle rifugiate irachene di finire i loro studi e sostenerle materialmente e moralmente perché possano poi rientrare nel loro Paese. 

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