Qualche settimana fa sono stato a visitare – vi mancavo da qualche anno – il Palazzo Hisham di Gerico, in una mattina già torrida d’inizio estate. Mi sono aggirato – praticamente solitario – tra le rovine di questo magnifico complesso residenziale, costruito nell’VIII secolo dai califfi omayyadi, con i cortili interni, i vari ambienti (tra cui una moschea privata e una pubblica), le eleganti colonne, lo splendido rosone divenuto uno dei simboli della città… Nell’area termale del palazzo (in quella zona riservata che la tradizione arabo-musulmana chiama diwan) ho ammirato lo splendido mosaico (parte di un prezioso pavimento musivo ancora più grande e tuttora non visibile) che raffigura un albero lussureggiante, ai cui piedi pascolano cerbiatte insidiate da un leone… Forse così doveva apparire Gerico al califfo Hisham e a suo figlio al-Walid, nei primi decenni dell’VIII secolo: un angolo rigoglioso di paradiso terrestre perso nel deserto, a due passi dal Mar Morto.
Il Palazzo Hisham, in qualche misura, è il simbolo di quello che potrebbe essere la Palestina oggi. Un Paese alla ricerca di una propria fisionomia, che vive una situazione oggettivamente difficile, in alcuni casi di rovina e di abbandono, ma che cela (come i mosaici nascosti di Palazzo Hisham) un tesoro che chiede di essere valorizzato.
Sappiamo bene in quali difficoltà si dibatta la tutela e la salvaguardia del patrimonio culturale palestinese. Difficoltà legate all’occupazione (molti siti sono in zone sotto il controllo israeliano), alla mancanza di fondi e di risorse umane. Ma il Palazzo Hisham, come altri siti che si trovano in aree sotto il pieno controllo palestinese (la cosiddetta zona A), oltre che luoghi legati all’identità storica del popolo possono diventare quei «pozzi di petrolio» di cui il nascente Stato non dispone (e avrebbe tanto bisogno). Tutelare e valorizzare questo patrimonio culturale (investendoci qualche soldo in promozione e servizi) significa credere nel futuro di un Paese che vuole guardare avanti, a partire dalla sua storia.