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Gli israeliani scettici sulle prospettive di pace e sulla Palestina nell’Onu

Manuela Borraccino
12 luglio 2011
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Gli israeliani scettici sulle prospettive di pace e sulla Palestina nell’Onu
Il presidente palestinese Mahmoud Abbas (sin.) e il premier israeliano Benjamin Netanyahu.

Gli ultimi sondaggi in Israele sembrerebbero indicare un certo scetticismo sulle possibilità di successo dell'iniziativa palestinese all'Onu. Ma, avvertono alcuni fra i maggiori analisti in colloqui con Terrasanta.net, non è detto che ciò si traduca in benefici per Israele. O che siano sventati i rischi che esploda una terza intifada.


(Roma) – Un sondaggio pubblicato due giorni fa dall’Israeli Democracy Institute, il maggiore centro di ricerca demoscopica in Israele, mostra come la decisione da parte degli Stati Uniti e della Germania di non sostenere la richiesta dell’Autorità Nazionale Palestinese di ingresso di uno Stato palestinese sovrano nell’Onu (gli Usa non escludono di bloccare la richiesta all’Assemblea generale avvalendosi del diritto di veto nel Consiglio di sicurezza) abbia fatto scendere dal 75 al 58 per cento fra maggio e giugno la percentuale di israeliani che credono che Abu Mazen intraprenderà sul serio questo passo (sono solo il 41 per cento fra gli arabi israeliani) e, dopo la visita di maggio di Netanyahu a Washington, è sceso dal 75 per cento al 66,6 per cento il tasso di chi ritiene che le Nazioni Unite riconosceranno lo Stato palestinese (appena il 43 per cento degli arabi israeliani ci crede). Tale cambio di percezione, riflettono i ricercatori, sarebbe il risultato delle voci secondo le quali Abu Mazen starebbe meditando un passo indietro lavorando ad un’alternativa alla dichiarazione d’indipendenza dopo la presa di posizione dei maggiori leader occidentali che non sosterranno l’iniziativa palestinese, o che si asterranno dal voto.

È vero che il 51 per cento degli israeliani ritiene che lo Stato ebraico patisca l’isolamento internazionale (erano il 54 per cento un anno fa), ma una chiara maggioranza del 70 per cento non teme che, come paventava il ministro della Difesa Ehud Barak, a settembre possa aver luogo uno «tsunami diplomatico». Il dato più preoccupante, rimarcano gli analisti, è che solo il 25 per cento degli israeliani pensa che si possa raggiungere un accordo sulla soluzione dei «due Stati per due popoli» nei prossimi due o tre anni: tale percentuale sale al 43 per cento se lo sguardo si allarga ai prossimi dieci anni, ma resta comunque meno della metà del pubblico. «Il problema vero è la sfiducia che con i leader attuali e viste le differenti percezioni nei due campi possano ripartire i colloqui di pace» spiega al telefono da Gerusalemme Tamar Hermann, docente di Scienze politiche alla Open University of Israel e direttrice del Guttman Center for Surveys dell’Israeli Democracy Institute che ha condotto l’inchiesta.

Il rifiuto di riprendere i negoziati continua a porre una seria ipoteca sul futuro dello Stato visto che, rimarca la politologa, il problema di come conciliare democrazia israeliana e negazione dei diritti civili dei palestinesi resta. «Non c’è dubbio – rimarca – che l’occupazione dei Territori ponga una seria minaccia alla tenuta della democrazia in Israele, e che inquini la costruzione di una democrazia compiuta: a lungo termine nessuno Stato democratico può tollerare la situazione nella quale vengono tenuti i palestinesi nei Territori. Lo Stato di Israele vive dal 1967 una sorta di schizofrenia fra quelli che sono i valori fondanti dello Stato e l’occupazione dei Territori».

I risultati dell’ultimo sondaggio non hanno colto di sorpresa la studiosa: «Il pubblico israeliano sostiene nella stragrande maggioranza la soluzione dei due Stati, ma il problema è nei termini dell’accordo, che del resto può essere raggiunto solo con un negoziato diretto. Non credo neanch’io che un eventuale appoggio alla Dichiarazione dello Stato palestinese all’Onu si tradurrà in un terremoto per Israele: si tratterà al massimo di un aumento di pressione da parte di alcuni Paesi».

Che cosa sarebbero disposti a concedere gli israeliani per raggiungere la pace? Secondo l’ultima rilevazione in 7 su 10 si oppongono al ritorno ai confini del 1967, ovvero alla restituzione della Giudea e Samaria, e solo il 26 per cento è disposto alla restituzione dei Territori in cambio di un accordo. Quest’ultima percentuale sale al 50 per cento nel caso in cui le colonie più grandi restino a Israele con uno scambio di terre, e raggiunge il 62 per cento se un accordo finale includesse il mantenimento degli insediamenti maggiori, l’impegno da parte dello Stato palestinese alla fine del conflitto ed il riconoscimento di Israele come Stato ebraico. Il che tocca la questione del diritto al ritorno dei profughi del ’48, nervo vitale per la leadership palestinese.

Un problema che potrebbe essere rimandato a futuri colloqui secondo Yossi Alpher, condirettore con l’ex ministro per la Pianificazione palestinese Ghassan Khatib della testata internazionale Bitterlemons.org ed ex direttore dello Jaffee Center for Strategic Studies all’Università di Tel Aviv. «La maggior parte degli israeliani – spiega a Terrasanta.net – sostiene la soluzione dei due Stati ma non crede che ci sia fra i palestinesi un partner pronto a concessioni necessarie come quelle sui rifugiati del 1948 o sulla Spianata del Tempio di Gerusalemme. Se anche Netanyahu formasse un governo più moderato, non credo che lui e Abbas possano porre fine al conflitto perché, come Abu Mazen disse già due anni fa, “la distanza fra di noi è troppo grande”. E ciò ha portato i palestinesi a rivolgersi alle Nazioni Unite».

Ecco perché tre settimane fa, con altre tre personalità israeliane, Alpher ha prospettato sul New York Times una strategia vincente per tutti, perché Israele trasformi l’iniziativa palestinese in una Risoluzione dell’Onu più bilanciata che crei uno Stato palestinese, ma tenga in considerazione l’interesse vitale di Israele alla sicurezza e alle altre questioni al centro dei negoziati.

«Abbiamo sollevato un vespaio di polemiche – spiega – ma il punto è che quel che Abu Mazen chiede è che le Nazioni Unite riconoscano uno Stato palestinese sovrano nei confini del 1967 con Gerusalemme Est come capitale. Non sta chiedendo alle Nazioni unite di risolvere il problema del diritto al ritorno per i rifugiati o di stabilire a chi appartiene la Spianata del Tempio. Sta cercando di riportare quello che è un conflitto fra uno Stato e un Movimento di liberazione in un conflitto fra due Stati con dei parametri gestibili. Perciò riteniamo che sia molto più utile per Israele e per la comunità internazionale offrire ai palestinesi quel che chiedono, ma aggiungere degli elementi che rendano la risoluzione accettabile per gli israeliani, con delle rassicurazioni sulla natura e le priorità dei futuri negoziati e le questioni più spinose rimandate a un secondo tempo».

E questo perché – avverte Alpher sulla scia delle critiche rivolte al governo da diversi capi delle forze armate, come l’ex direttore del Mossad il generale Meir Dagan, sulla decisione «sbagliata e pericolosa» di evitare il processo di pace e minimizzare la campagna all’Onu – non è detto che l’atto unilaterale palestinese non abbia conseguenze. «Un eventuale riconoscimento internazionale della Palestina – chiosa il nostro interlocutore – potrebbe causare non solo pressioni internazionali su Israele, ma anche una terza intifada. Che potrebbe essere violenta, o non violenta: non lo sappiamo. Quel che è certo è che sarebbe appoggiata dalla comunità internazionale».

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