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Di sentenze e contese

Giorgio Bernardelli
6 luglio 2011
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Di sentenze e contese
Il rabbino Yitzhak Shapira.

È sempre un tasto molto delicato in Israele il rapporto tra la religione e la legge dello Stato. E proprio tre vicende tratte dalle cronache di questi giorni lo mostrano chiaramente: il dibattito sulle gravi affermazioni di un rabbino circa il diritto bellico, l'indicazione della religione d'appartenenza sulle carte d'identità, una sentenza sulla moschea di Be'er Sheva.


È sempre un tasto molto delicato in Israele il rapporto tra la religione e la legge dello Stato. E proprio tre vicende tratte dalle cronache di questi giorni lo mostrano chiaramente. La più esplosiva è quella legata al tristemente famoso King’s Torah, il libro di rav Yitzhak Shapira – il rabbino di Yitzhar, uno dei più ascoltati nei gruppi della destra nazionalista – in cui, a partire dall’halachà, la legge ebraica, viene teorizzato il fatto che sia giusto uccidere anche i bambini del nemico, se questi rappresenta una minaccia per la propria sopravvivenza.

Il libro di rav Shapira è del 2009, ma la novità di questa settimana è che due maestri della Torah ancora più noti – rav Dov Lior e rav Yaakov Yosef (che è anche figlio del fondatore dello Shas, il partito dei sefarditi ultraortodossi) – sono stati fermati e interrogati dalla polizia per aver pubblicamente difeso questa tesi. L’accusa nei loro confronti è quella di incitamento all’odio razziale e lo stesso premier Benjamin Netanyahu, commentando la vicenda, ha detto che nessuno può ritenersi al di sopra della legge. La cosa ha mandato su tutte le furie l’ala più oltranzista della destra religiosa che è scesa in piazza per sostenere i due rabbini, peraltro subito rilasciati. Nel frattempo è tornato a parlare anche rav Shapira che in un’intervista, pur ammettendo che in una nuova edizione chiarirebbe meglio il suo pensiero, non ha fatto sostanzialmente passi indietro sulla tesi (aberrante) che in caso di guerra anche i bambini del nemico siano un obiettivo da colpire. Il vero guaio di tutta questa vicenda è che il dibattito – in maniera stereotipata – viene impostato sull’opposizione tra religiosi e laici, tra legge religiosa e legge civile. Come se fosse assodato per tutti gli ebrei religiosi che l’halachà ammette l’uccisione dei figli del nemico. Ovviamente non è così e infatti il libro di Shapira in questi anni è stato criticato anche da tante voci del mondo religioso ebraico.

Secondo tema caldo: quello delle carte di identità. Qui in subbuglio è l’ala opposta dello spettro degli ebrei religiosi d’Israele: i gruppi (minoritari) che fanno riferimento all’ebraismo Conservatore e Riformato (le correnti più liberali). Sulle carte di identità israeliane il riferimento alla religione era stato tolto nel 2002 dal già allora ministro dell’Interno Eli Yishai, che è un religioso ortodosso. Non fu affatto un gesto di laicità, ma un atto polemico nei confronti di una sentenza della Corte suprema in materia di conversioni. Secondo l’intesa stabilità già da David Ben Gurion ai primordi dello Stato di Israele, tra le facoltà assegnate al Gran Rabbinato c’è quello di sancire ufficialmente le conversioni all’ebraismo. Il problema è che il Gran Rabbinato è un’istituzione dell’ebraismo ortodosso, che non riconosce come valide le conversioni sancite da Conservatori e Riformati (che sono poi anche i meno rigidi nell’accogliere nuovi fedeli). Per questo motivo fino al 2002 ai nuovi ebrei non ortodossi veniva rifiutata la possibilità di dichiararsi ebrei sulla carta di identità. Cosa che la Corte suprema ha ritenuto inaccettabile. A quel punto Yishai – pur di non dare ragioni agli altri gruppi – ha tolto l’indicazione dalla carta di identità. Ma gli ebrei Conservatori e Riformati hanno contestato anche questa soluzione e alla fine hanno vinto: sulla carta di identità israeliana potrà dunque tornare la specifica della religione di appartenenza, anche se non si tratterà di un obbligo.

Infine vale la pena di citare un’ultima battaglia legale relativa questa volta ai musulmani di Israele, che a Be’er Sheva hanno ottenuto una parziale vittoria. La vecchia moschea – che era una delle tante svuotate nel 1948 dall’esodo dei palestinesi – potrà tornare a essere un luogo che parla dell’islam e non un museo sulle tre religioni monoteiste, come avrebbe voluto la locale municipalità. Lo ha stabilito ancora la Corte suprema che ha accolto parzialmente un ricorso presentato da Adalah, l’associazione che difende i diritti degli arabi israeliani. In realtà il ricorso chiedeva che tornasse a essere un luogo di culto islamico, mentre la Corte nella sentenza parla di un museo sulla presenza islamica nella città. Un primo passo, comunque importante, sul tema del rispetto dell’identità religiosa altrui.

Clicca qui per leggere l’intervista a rav Shapira dal sito di Yediot Ahronot
Clicca qui per leggere la notizia sulle carte d’identità da
Un Echo d’Israel
Clicca qui per leggere sul sito di
Haaretz la notizia su Be’er Sheva

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