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Assisi e Tibhirine avamposti del dialogo

padre Gwenolé Jeusset ofm
22 luglio 2011
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Nel sud-est della Francia, vicino a Montélimar, presso l’abbazia di Aiguebelle, da cui nasce la trappa di Tibhirine, il ricordo del priore e dei confratelli uccisi in Algeria nel maggio 1996, oggi veicolato anche dal film Uomini di Dio, è molto vivo e ci accompagna lungo tutta la settimana. Nello scorso giugno, vi sono giunto da Istanbul per animare il ritiro dei francescani di Francia sul tema «L’incontro spirituale con l’altro nello spirito di Assisi e di Tibhirine».

In un’epoca in cui siamo alle prese con barriere e chiusure culturali (mi piace definirla «la tentazione del ghetto»), il ricordo di padre Christian de Clergé e della sua comunità ci impedisce di disperare della vecchia Europa che manca d’aria. E di una Chiesa che a volte ha nostalgia delle barriere di un tempo.

Credo che oggi più che mai occorra imparare ad ascoltare. E come comunità di credenti serva tornare tutti insieme, come ci invita il Papa,  ad Assisi (ma anche a Tibhirine).

L’unica volta in cui passai per l’abbazia algerina, avevo desiderato che i monaci mi parlassero dei loro rapporti con i vicini e i loro amici sufi. Il priore mi spiazzò invece chiedendomi: «Ci parli di san Francesco, della sua visita al sultano d’Egitto e del suo sguardo sull’islam». Tibhirine si congiungeva ad Assisi.

Anche nel mio ultimo soggiorno francese Assisi si è congiunta a Tibhirine. Unendoci alla preghiera dei monaci di Aiguebelle, abbiamo fatto incontrare Francesco d’Assisi con coloro che si erano riconosciuti nell’ideale del nostro padre. Nei giorni centrali del ritiro, abbiamo celebrato una veglia di preghiera nel vecchio magazzino, divenuto Memoriale. La sala, dove regna un religioso silenzio, è in effetti molto eloquente. All’ingresso troviamo il Testamento di Christian de Clergé vicino alla sua fotografia, affiancata a quella di Mohamed, la garde-champêtre (una sorta di polizia rurale – ndr) che gli salvò la vita durante il servizio militare. Poi il testamento di un altro Mohamed, autista di mons. Pierre Claverie, il vescovo domenicano di Orano ucciso, con lui, tre mesi dopo i monaci. Sulla parete di fronte, sette statuette rappresentano i monaci martiri, ciascuno in un atteggiamento di offerta e di preghiera. In fondo a questa lunga sala, un altare davanti al muro di roccia sul quale un Cristo risorto sembra felice di essere raggiunto dai testimoni del suo amore in terra d’islam, proprio davanti a sette sgabelli recanti il nome di ciascun monaco ucciso. Sarebbe bello se alla morte dell’ultimo sopravvissuto aggiungessero due sgabelli con il nome dei due confratelli che sfuggirono al rapimento.

Tibhirine, minuscola Chiesa disarmata in un mondo in armi, luogo di «oranti in mezzo ad altri oranti», è diventata un manifesto che dice «no» a coloro che vogliono scavare un fossato tra le civiltà e le religioni. Coloro che commisero il delitto e coloro che si compiacciono di trovare qui la prova che la loro visione di un islam diabolico è quella giusta, sono convinti di aver conosciuto la fine dell’avventura del dialogo. Ma queste due forze avverse si sbagliano. La fine terrena dei monaci è il preludio allo splendore che emana il messaggio della loro vita. Possano i cristiani che si limitano a vedere nella loro morte un’occasione per odiare, comprendere che così facendo si rendono complici degli assassini. Grazie a Dio, sembra che, al contrario, gran parte dei credenti sia stata toccata dal messaggio di pace e riconciliazione degli «uomini di Dio».

I miei confratelli di Francia hanno trovato in questa settimana di esercizi spirituali e nella semplice veglia una sorgente rigogliosa dove rinnovare il loro desiderio francescano di una Chiesa aperta all’incontro spirituale con l’altro.

(traduzione di Roberto Orlandi)

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