Qual è il pericolo più grande che corriamo di fronte al conflitto in Medio Oriente? Quello di essere così presi dalle notizie e dalle analisi della realtà, da non avere più occhi per vedere. È quanto vien da pensare in questi giorni leggendo due testimonianze che ci dicono quanto potrebbe essere diverso il nostro sguardo se davvero partissimo da ciò che vediamo.
Qual è il pericolo più grande che corriamo di fronte al conflitto in Medio Oriente? Quello di essere così presi dalle notizie e dalle analisi della realtà, da non avere più occhi per vedere. È quanto mi è capitato di pensare in questi giorni leggendo due testimonianze arrivate dalla Terra Santa. Due racconti che ci dicono quanto potrebbe essere diverso il nostro sguardo se davvero partissimo realmente da ciò che vediamo.
Il primo è un post che ho letto sul blog di abuna Mario Cornioli, sacerdote toscano che da alcuni anni ormai vive a Betlemme tra quei «Gesù Bambini» che oggi hanno più bisogno di una casa (e proprio pochi giorni fa abuna Mario insieme alle suore del Verbo Incarnato una nuova per loro l’hanno aperta, come racconta l’articolo tratto dal sito del Patriarcato latino che linkiamo in fondo a questa pagina). Non è – però – di Betlemme che parla il racconto di abuna Mario, ma di una visita che ha compiuto a Gaza alla parrocchia latina della Sacra Famiglia. Da là è rientrato a Betlemme con impressa un’immagine molto meno stereotipata di quelle solitamente in circolazione su Gaza, che lui ha pubblicato sul suo blog: una spiaggia affollata al tramonto, con un numero incredibile di bambini a mollo nel mare. «Migliaia di bambini che fanno il bagno fino a buio inoltrato… – commenta la sua fotografia abuna Mario -. Ci sono famiglie intere sulla spiaggia di Gaza, donne con i loro veli e uomini con le loro canottiere che distesi sulla sabbia sembrano non darsi cura delle migliaia di ragazzini a fare il bagno… Al punto che a tavola qualcuno farà la battuta: “Tanto anche se ne perdono uno stanotte ne nasceranno altri 300…”. Battuta che testimonia, però, una realtà: Gaza esplode di vita! E non ci saranno né bombardamenti né chiusure né limitazioni né motovedette né muri che potranno contenere questa esplosione».
Siamo abituati a parlare di Gaza con tanti accenti diversi. Eppure mi ha colpito sentirla definire una città che «esplode di vita». Ed è assolutamente vero: c’è una vita oltre tutti gli stereotipi. Eppure è proprio questo volto ciò che i nostri occhi troppo spesso non riescono più a vedere. Pur in mezzo a tutte le difficoltà (l’apertura incondizionata del valico con l’Egitto a Rafah per molti gazawi è rimasta solo una promessa, il governo di unità tra Fatah e Hamas annunciato quaranta giorni fa ancora non si vede e il fatto che ieri Fatah abbia candidato Fayyad a guidarlo significa che l’accordo è tuttora lontano…) la speranza resta a galla nella vita della gente, che non si ferma. Forse basterebbe solo saperla scorgere per ribaltare la prospettiva.
E tutto questo mi ha fatto venire in mente anche un articolo interessante pubblicato qualche giorno fa da Amira Hass su Haaretz. Parla di un libro intitolato Zoom In. Palestinian Refugees of 1948, Remembrances in cui sono raccolti i frutti di un lavoro promosso da un istituto olandese che promuove iniziative sul tema della riconciliazione. Un’esperienza particolarmente significativa, perché incrocia uno dei temi più caldi di queste settimane: la memoria del 1948, che per gli ebrei è l’anno della nascita di Israele mentre per gli arabi è la nakba, la catastrofe di chi ha perso la propria terra. Che cosa è stato davvero quell’evento letto in maniera così differente dai due popoli? Zoom In ha tentato un esperimento: ha preso 32 fotografie di quella guerra e ha chiesto, senza fornire alcuna didascalia, a un gruppo di studenti universitari israeliani e palestinesi di commentarle. Sono venute fuori chiaramente le distanze tra la realtà e i pregiudizi. Così, ad esempio, una foto che mostra dieci uomini con le mani alzate allineati contro un muro ha fatto ragionare immediatamente tutti su un arresto di milizie arabe. E invece si trattava di uomini del Palmach, la formazione paramilitare ebraica, arrestati dai britannici. Mentre l’immagine di una famiglia poverissima dallo sguardo triste – immediatamente associata ai profughi palestinesi – in realtà ritraeva alcuni ebrei immigrati dalla Bulgaria.
«Il conflitto è anche negli occhi con cui guardiamo», commenta Amira Hass. La vera sfida, forse, sta nel ricominciare a vedere davvero. Come abuna Mario sulla spiaggia di Gaza.
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Clicca qui per leggere il post di abuna Mario Cornioli
Clicca qui per leggere dal sito del patriarcato latino di Gerusalemme l’articolo sull’inaugurazione della Casa dei Gesù Bambini a Betlemme
Clicca qui per leggere l’articolo di Amira Hass