Atteso da settimane, Obama giovedì ha parlato. Con un discorso che in certi passaggi ha ricordato quello pronunciato al Cairo due anni fa. Ma questa volta l'accoglienza in Medio Oriente è stata molto scettica. Tra equilibrismi e retorica, alla fine l'impressione è che la diplomazia americana resti prigioniera del proprio status quo.
Atteso da settimane, Obama giovedì ha parlato. Con un discorso dei suoi: in certi passaggi ha ricordato davvero quello tenuto al Cairo due anni fa. Ma questa volta l’accoglienza in Medio Oriente è stata molto scettica. Perché – appunto – la situazione non è più quella di due anni fa.
Mentre al Cairo Obama era il presidente che prendeva l’iniziativa, oggi è quello che prova a seguire l’onda. Certamente dicendo cose importanti sul rispetto della libertà e della democrazia: proposto da Obama l’accostamento tra Mohammed Bouazizi (il venditore tunisino che dandosi fuoco ha dato il via alla «primavera araba») e Rosa Parks (la donna che negli Stati Uniti diventò un simbolo della questione razziale rifiutandosi di sedere sull’autobus nella fila in cui era relegato chi aveva la pelle nera) assume un significato particolare. Ma è un paragone che colpisce molto più gli elettori americani che le piazze del Medio Oriente. Dove invece da Obama si aspettano non parole ma gesti politici. Un genere di cose su cui, però, oggi le mani del presidente degli Stati Uniti sono molto più legate alla salvaguardia degli interessi strategici. Perché per Washington è facile lanciare ultimatum alla Siria di Assad; un po’ meno parlare di Paesi come la Giordania o l’Arabia Saudita, nemmeno citati nel lungo discorso-evento pronunciato al Dipartimento di Stato.
Ancora più evidente l’equilibrismo è apparso nella parte del discorso dedicata al conflitto israelo-palestinese, durante la quale Obama ha dato il classico colpo al cerchio e colpo alla botte. Ha richiamato i confini del 1967 (peraltro aggiungendo la classica formula «con reciproci aggiustamenti», che almeno in parte salvaguarderebbe comunque i famosi «blocchi» di insediamenti israeliani). Ma ha anche detto chiaramente che gli Stati Uniti a settembre si metteranno di traverso quando all’Assemblea generale dell’Onu sarà discusso il riconoscimento dello Stato palestinese. Ed è tornato a invitare entrambe le parti a riprendere il negoziato concentrandosi sulla questione dei confini: definiamo quelli lasciando per il momento da parte tutto il resto. Peccato che sia quanto il Dipartimento di Stato va ripetendo ormai da un anno con scarso successo. E le recenti dimissioni dell’inviato di Obama per il Medio Oriente, George Mitchell, la dicono lunga su quali concrete speranze ci siano oggi di portare avanti questa linea.
Tutto questo il presidente degli Stati Uniti non può non saperlo. E quindi – al di là della retorica sull’insostenibilità dello status quo – questa parte del discorso va letta per ciò che è: l’indisponibilità di Washington a mettere in campo fatti nuovi che sblocchino l’attuale situazione di stallo. Perché una volta che Netanyahu (come prevedibile) ha risposto che i confini del 1967 sono inaccettabili – dopo aver già rifiutato mesi fa la proroga del blocco degli insediamenti -, e una volta che ormai i palestinesi hanno deciso di andare avanti nella strada che li porterà al braccio di ferro di settembre all’Onu, gli Stati Uniti che cosa fanno?
Questo è ciò che Obama non ha detto nel suo discorso. Alla fine l’impressione è che a rimanere prigioniera del proprio status quo sia la diplomazia americana. In un Medio Oriente che – però – nel frattempo non sta fermo, come si è visto molto bene durante le manifestazioni organizzate dai palestinesi in occasione del 15 maggio, l’anniversario della Nakba. È interessante a questo proposito citare il commento apparso sull’Economist che pone una domanda tutt’altro che peregrina: dopo che si è invocato per anni il Gandhi palestinese, adesso che loro si riversano davvero ai confini di Israele con manifestazioni non violente che si fa? Temo che sarà una domanda con cui ci troveremo di nuovo a fare i conti nei prossimi mesi.
Forse la chiave per rispondere sta in un altro passaggio molto bello del discorso di Obama: quello in cui ha evocato due storie che i nostri lettori certamente ricordano. Per invitare al cambiamento il presidente degli Stati Uniti ha infatti citato le esperienze del Parents’ Circle – l’associazione di genitori israeliani e palestinesi che hanno perso un proprio caro in questo conflitto e provano a costruire ponti di incontro – e quella del dottor Izzeldin Abuelaish – il medico di Gaza che durante l’ultima guerra ha visto uccidere tre sue figlie eppure ha scritto un libro intitolato Io non odierò. Storie importanti a cui personalmente sono molto legato (ne ho parlato anche nel mio libro Ponti non muri). Ed è bello che in un discorso così importante Obama le abbia citate.
Ma queste testimonianze preziose da sole non risolvono i conflitti: serve comunque una politica che faccia la sua parte, assumendosi la responsabilità di tirare le somme e suddividere in maniera equa i prezzi che entrambe le parti in lotta dovranno pagare per arrivare alla pace. Proprio in nome del coraggio dei genitori del Parents’ Circle e di Izzeldin Abuelaish oggi ci sarebbe bisogno di un presidente americano disposto a osare molto di più. Prima di doversi ritrovare un’altra volta a rincorrere una situazione scappata di mano a tutti nelle piazze.
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