(Milano) – Ieri pomeriggio, 24 maggio, il Congresso degli Stati Uniti ha salutato il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu con un’autentica ovazione. Deputati e senatori, in piedi, gli hanno tributato un prolungato applauso. Il discorso era atteso da mesi, ma non ha regalato piacevoli sorprese.
Il premier ha adottato un’oratoria efficace per parlare a un’assemblea che avvertiva amica. Ovviamente ha rimarcato più volte i saldi legami tra il suo Paese e gli Stati Uniti («Israele non ha migliore amico che l’America, l’America non ha migliore amico che Israele»… «Molti si affrettano a condannare Israele quando si difende dagli emissari iraniani del terrore. Voi no, l’America si comporta diversamente»… «In un Medio Oriente instabile, Israele è l’unica ancora di stabilità. In una regione dalle alleanze mutevoli, Israele resta l’incrollabile alleato dell’America»).
Come gli succede non di rado quando parla in pubblico negli Stati Uniti, pochi minuti dopo aver preso la parola Netanyahu è stato contestato da una giovane voce femminile (quella di Rae Abileah una militante di Codepink, coordinatrice delle campagne per il Medio Oriente dell’organizzazione femminile pacifista) che si è levata urlando dal settore del pubblico, ma che è stata subito zittita. I parlamentari hanno applaudito nuovamente il loro ospite che ha ripreso il discorso con un’ovvia glossa: «In casi come questo mi rallegro delle nostre democrazie. In un parlamento come quello iraniano simili episodi non potrebbero accadere».
Il premier israeliano ha poi dedicato una parte del suo intervento alle rivolte arabe in corso da inizio anno in vari Paesi dell’Africa mediterranea e del Medio Oriente: «Milioni di giovani sono determinati a cambiare il proprio futuro. Noi guardiamo a loro. A loro che si fanno coraggio, che chiedono dignità e desiderano libertà. Le scene straordinarie che abbiamo visto a Tunisi e al Cairo evocano quelle di Berlino e Praga nel 1989. E tuttavia nel momento in cui condividiamo le loro speranze dobbiamo anche ricordarci che esse possono essere spente così come accadde a Teheran nel 1979. (…) Il Medio Oriente oggi è a un crocevia decisivo. Come voi tutti, prego che i popoli della regione scelgano il sentiero meno battuto, quello della libertà. (…) Un sentiero che non è lastricato soltanto di elezioni. Un sentiero che si schiude quando i governi consentono le proteste nelle piazze, quando vengono posti limiti ai poteri delle autorità, quando i giudici sono ossequiosi alla legge e non agli uomini e quando i diritti umani non vengono schiacciati dalla lealtà alle appartenenze tribali o dalle decisioni imposte da folle tumultuanti. Israele ha sempre abbracciato questo sentiero, in un Medio Oriente che lo rifiuta. In una regione in cui le donne vengono lapidate, i gay impiccati, i cristiani perseguitati, Israele si staglia. Israele è diverso. (…) Israele sostiene pienamente il desiderio dei popoli arabi nella nostra regione a vivere in libertà. Aneliamo al giorno in cui Israele sarà una tra le molte vere democrazie del Medio Oriente».
Accorato, una volta ancora, l’appello del primo ministro israeliano a fermare l’Iran prima che si procuri le armi nucleari perché altrimenti esso «scatenerebbe una corsa all’atomica in tutto il Medio Oriente e fornirebbe ai terroristi un ombrello nucleare».
Netanyahu ha ringraziato la Casa Bianca e il Congresso americani per le sanzioni contro Teheran adottate fino ad oggi, ma ha esortato a non escludere le misure più estreme. «Il regime degli ayatollah – sono sue parole – ha sospeso brevemente il suo programma nucleare una volta sola, nel 2003, quando temeva una possibile azione militare. In quello stesso anno, Muhammar Gheddafi rinunciò al suo programma nucleare per la stessa ragione. Più l’Iran è consapevole che tutte le opzioni sono sul tavolo e minore è la possibilità di giungere a uno scontro».
Esaurito il capitolo iraniano, il capo del governo di Israele è passato a considerare i rapporti con i suoi vicini: la pace con Giordania ed Egitto – ha osservato – è stata un’àncora di stabilità nel Medio Oriente. Quegli accordi sono vitali ma non bastano, bisogna trovare il modo di giungere a una pace duratura coi palestinesi.
«Vogliamo – ha detto – due Stati per due popoli: uno stato ebraico e uno stato palestinese fianco a fianco. Esprimo la mia volontà di arrivare a dolorosi compromessi per raggiungere questa storica pace (…) Non è facile per me. Riconosco che in una pace genuina ci sarà richiesto di rinunciare a parti della nostra madrepatria ebraica». E qui il primo ministro ha scandito: «Perché in Giudea e Samaria, il popolo ebraico non è un occupante (…) Questa è la terra dei nostri avi, la terra di Israele, alla quale Abramo ha portato il concetto di un unico Dio, dove Davide ha sfidato Golia, e dove Isaia ha avuto la sua visione di pace eterna. Nessuna distorsione della storia potrà negare il legame antico 4 mila anni tra il popolo ebraico e la terra ebraica».
In un’occasione tanto solenne Netanyahu non ha voluto essere più dettagliato sugli impegni che è disposto ad assumere.
Ben più nitide e puntuali le sue richieste alla controparte palestinese. Le riassumiamo sinteticamente:
• i palestinesi devono accogliere l’idea che il loro futuro Stato sorga accanto a quello che si caratterizza, e va riconosciuto anche da loro, come «Stato ebraico»;
• bisogna prendere atto che la situazione demografica odierna è assai diversa da quella del 1967 e dunque non si può pensare di tornare alle demarcazioni territoriali di allora, perché quei confini per Israele sarebbero indifendibili;
• sugli insediamenti israeliani nei Territori Palestinesi occorre negoziare, ma è già chiaro che alcuni rimarranno oltre i futuri confini di Israele;
• i profughi palestinesi che lasciarono le loro proprietà nel 1948 davanti all’avanzata israeliana non possono pensare di ristabilirsi in Israele;
• Gerusalemme è e resta l’unica capitale dello Stato ebraico. Alle rivendicazioni palestinesi in proposito bisognerà rispondere con soluzioni dettate da «creatività e buona volontà»;
• una pace solida è quella che si può difendere anche militarmente. Israele ha un territorio piccolo che va tutelato con misure speciali: lo Stato palestinese dovrà essere smilitarizzato e truppe israeliane stazionare a lungo termine nella valle del Giordano (elemento questo non menzionato in precedenti discorsi pubblici di Netanyahu);
• i palestinesi rinuncino all’idea di imporre il proprio Stato ricorrendo alle Nazioni Unite. Non c’è alternativa possibile a un accordo quadro con Israele che ponga definitivamente termine al conflitto;
• Hamas non è un partner per la pace. Il presidente dell’Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas, stracci l’accordo raggiunto con il movimento islamista e torni al tavolo del negoziato con Israele, sapendo che quest’ultimo «non negozierà mai con un governo appoggiato dalla versione palestinese di Al Qaeda».