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La rete della solidarietà

Simone Esposito
23 maggio 2011
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La rete della solidarietà
La facciata dell'ospedale italiano ad Haifa. (foto J. Kraj)

«Quante ne ho viste, in questi anni. E quante ne hanno viste le nostre opere: anche Lawrence d’Arabia è passato da noi, ricoverato ad Amman dopo un incidente d’auto. Per dirla tutta, se n’è andato via senza saldare il conto per le cure ricevute: almeno così risulta dalla documentazione…». È una storia lunga e persino avventurosa, quella di cui è erede Maurizio Saglietto. È difficile capirlo dalle apparenze, cosa abbiano in comune l’eroe della Rivolta araba del 1916-18, che tutti ricordano con la faccia cinematografica di Peter O’Toole, e questo distinto architetto-ingegnere cuneese di 82 anni. Il quale però, a dispetto dell’età, gira ancora l’Italia e tutta l’area del Mediterraneo per prendersi cura di scuole, seminari, centri d’accoglienza e ospedali. Mantenendo tuttavia un profilo di discrezione, lontano dai riflettori. Non è il suo stile, non è lo stile dell’associazione.

Maurizio Saglietto è, dal 1988, il presidente dell’Associazione nazionale per soccorrere i missionari italiani (Ansmi). Una realtà nata ormai 125 anni fa dallo slancio di Ernesto Schiaparelli, il grande egittologo che scoprì la tomba di Nefertiti. Schiaparelli, nemmeno trentenne, nel 1884 andò a Luxor, in Egitto, per ragioni scientifiche. Fu lì che, ospitato dai missionari francescani, si rese conto della miseria estrema nella quale i religiosi operavano e del grande bisogno di assistenza che quelle regioni avevano. E così, rientrato in Italia nel 1886, il futuro direttore del Museo egizio di Torino costituì un’associazione con lo scopo di sostenere e incrementare l’opera dei missionari italiani.

«All’inizio del 1940 – ci racconta Saglietto – l’Ansmi possedeva oltre 200 strutture, da Tangeri a Pechino passando per Egitto, Libia, Giordania, Palestina, Siria, Dodecaneso, Turchia, Africa italiana. Un patrimonio enorme di istituzioni, considerata l’epoca. Molti degli ospedali, per esempio, furono i primi costruiti in quei Paesi: tra questi c’è quello di Amman, dove – come raccontavo – nei primi anni di attività fu curato anche Lawrence d’Arabia».

Poi però, con la Seconda guerra mondiale, la gran parte delle opere sono andate distrutte…
Purtroppo sì: dopo la guerra abbiamo quasi dovuto ricominciare daccapo. Oggi abbiamo una ventina di istituti. Gli ospedali sono cinque: uno a Tangeri, in Marocco, due in Giordania, ad Amman e Kerak, uno a Damasco, in Siria, e uno ad Haifa, in Israele. Poi ci sono le scuole: Smirne (Turchia), Cana e Haifa (Israele), El Fayoum, Luxor e Assiut (Egitto), e due nuove opere nate in Albania dodici anni fa, una scuola professionale femminile e un centro per disabili. Si va dall’asilo alle scuole superiori, e tranne che in Turchia, dove è vietato, le scuole sono frequentate soprattutto dai ragazzi del posto. Sono ancora oggi istituti con moltissimi studenti (ad Haifa sono oltre mille), e alcuni sono molto antichi e prestigiosi nei loro Paesi: basti pensare che la scuola di Luxor, un istituto femminile, è in funzione dal 1889, appena tre anni dopo la fondazione dell’associazione. In totale, oggi, siamo presenti in sette nazioni oltre che in Francia, dove abbiamo una missione per gli emigrati italiani, a Chambéry.

Chi gestisce le vostre opere?
Pur appartenendo all’Ansmi, sono tutte affidate a istituti religiosi: sono una decina, appartenenti a varie famiglie, dai comboniani ai francescani, dai carmelitani ai domenicani, sia del ramo maschile che di quello femminile. L’associazione mantiene l’alta direzione degli enti.

E come è strutturata l’Ansmi? E come operate concretamente?
Siamo un’associazione no-profit. In Italia esistono diversi nuclei territoriali, chiamati «comitati», sparsi soprattutto nel Centro-Nord. In totale coinvolgiamo circa un centinaio di persone. La nostra attività è fatta soprattutto di ricerca-fondi. Ultimamente siamo riusciti a farci pagare una Tac dai Cavalieri del Santo Sepolcro. Bussiamo a tutte le porte: associazioni, enti, istituzioni, chiunque. Le offerte ci arrivano da tutto il mondo: per la terapia intensiva di Damasco ho ricevuto da poco del denaro dall’Irlanda, e addirittura 80 mila dollari da una signora musulmana di Abu Dhabi. Negli ultimi decenni ci siamo impegnati moltissimo per la tecnologizzazione delle strutture sanitarie. I nostri ospedali sono tutti molto antichi, e una volta si lavorava in situazioni estremamente precarie, specialmente nelle realtà più povere. Oggi i nostri centri sono tutti all’avanguardia e sono strutture d’eccellenza nelle loro regioni.

L’area in cui operate è l’intero bacino del Mediterraneo: la vostra presenza è anche una sfida di convivenza.
Assolutamente sì. Il servizio che i nostri istituti rendono alle comunità locali è molto apprezzato, al di là delle differenze di fede. Nelle scuole gli studenti sono ovunque quasi tutti musulmani, così come negli ospedali si accoglie e si cura chiunque. Il personale è misto, ma i musulmani sono prevalenti, tanto negli ospedali quanto nelle scuole. A Tangeri gli islamici sono la totalità; a Damasco è greco-cattolico solo il direttore sanitario. E ovunque si lavora benissimo, insieme.

I rapporti con i governi, invece, come sono?
Sono ottimi in tutti i Paesi. Nell’ottobre scorso, per fare un esempio, la Grande municipalità di Amman ha dato una cena in nostro onore. In Giordania, re Hussein e la famiglia reale hashemita hanno usufruito più volte delle cure delle nostre strutture. Tutti ci riconoscono positivamente, qualunque sia il regime: di recente il ministro della Sanità siriano mi ha dato atto del fatto che i soldi da noi raccolti sono spesi tutti per le opere e che non viene sprecato un centesimo. Noi lavoriamo per l’Ansmi a titolo completamente gratuito, e io quando vado in visita nelle nostre strutture non spendo nemmeno i soldi per l’albergo: me ne vado a dormire in ospedale. La nostra scelta è quella di stare fuori dalle questioni politiche, tenendo appositamente un basso profilo che ci consenta di operare in tranquillità, e questo paga.

La vostra associazione ha una presenza molto radicata anche in Terra Santa.
Siamo attivi nella regione dal 1907, quando c’era ancora l’Impero Ottomano, quattro decenni prima della nascita dello Stato di Israele. In quell’anno Schiaparelli comprò parte dei terreni del Monte delle Beatitudini, dove poi fu edificato l’Ospizio per i pellegrini, e costituì il comitato per l’edificazione dell’Ospedale italiano di Haifa. Oggi entrambe le strutture sono due perle della nostra associazione. La casa del Santuario delle Beatitudini ha 150 posti e un parco di 200 ettari, l’abbiamo completamente ristrutturata di recente, e le sue entrate servono tutte per finanziare le altre opere. L’ospedale di Haifa, gestito dalle Suore missionarie d’Egitto, è un policlinico all’avanguardia con un’altissima specializzazione oncologica. Un vero punto di riferimento sanitario sia per gli ebrei che per gli arabi, cosa che ci riconosce ufficialmente anche il governo israeliano. Non lontano dall’ospedale c’è anche una scuola che va dalle elementari ai licei, dove si insegna l’arabo, l’ebraico, l’italiano e l’inglese, e per chi vuole anche il francese: abbiamo così tante richieste di iscrizione che non riusciamo ad accoglierle tutte. Un’altra scuola, poi, si trova a Cana.

Quali sono i prossimi progetti in cantiere?
Eh, sono tanti: l’apertura di un centro di oncologia pediatrica e uno di cardiologia pediatrica a Tangeri, la ristrutturazione del reparto di neonatologia di Kerak, un nuovo acceleratore lineare per la radioterapia per l’oncologia di Haifa. Ma ci vogliono tante risorse, speriamo di farcela. Noi continuiamo a darci da fare. Io, intanto, qualche schedina al Superenalotto l’ho giocata e la gioco!

E se vincete?
E se vinciamo una grande cifra, lo so già cosa farei: un ospedale nell’Africa nera.

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