È il primo arabo ad essere stato scelto, tre anni orsono, come arcivescovo di Algeri. E ci tiene a sottolineare le sue origini, mons. Ghaleb Moussa Abdalla Bader, originario di Khirbeh, nel nord della Giordania. Durante un breve soggiorno a Roma gli abbiamo chiesto di parlarci brevemente della sua Chiesa.
(Roma) – È il primo arabo ad essere stato scelto, tre anni orsono, come arcivescovo metropolita di Algeri, dopo due presuli francesi: mons. Henri Teissier e il cardinale Léon Etienne Duval. E tiene moltissimo a ribadire le sue origini, mons. Ghaleb Moussa Abdalla Bader, originario di Khirbeh, nel nord della Giordania, dov’è nato sessant’anni fa. Ordinato sacerdote nel ’75 a Jabal-Weibdeh, l’anno dopo diventa vicario della parrocchia di Cristo Re, dove il ruolo di parroco è affidato al futuro patriarca di Gerusalemme, Michel Sabbah. Dopo gli studi di diritto a Damasco e a Roma, dal 1981 al 1986 ha partecipato alla traduzione dal latino in arabo del Codice di diritto canonico. Nel 1988 viene nominato presidente del Tribunale ecclesiastico a Gerusalemme; quattro anni dopo ricopre lo stesso ruolo ad Amman, dove è parroco di Abal-Weibdeh fino al giugno del ’98. Approfondisce ulteriormente i temi del confronto tra diverse fedi dal 1996 al 2001, quale consultore del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso. Ora guida la comunità cattolica nella terra che fu teatro del martirio dei monaci di Tibhirine, uccisi nel 1996 90 chilometri a sud di Algeri.
Nei giorni scorsi lo abbiamo incontrato a Roma, dove ha accettato di rispondere a qualche domanda.
Che aria si respira oggi in Algeria? E che tipo di percezione del Paese riscontra sui media internazionali?
Ogni giorno all’estero vediamo cattiva pubblicità sull’Algeria, percepita come un Paese violento. Invece c’è un’altra Algeria, in cui vive una Chiesa piccola piccola che cerca di testimoniare Cristo. E poi non bisogna dimenticare che all’inizio del cristianesimo l’Europa è stata evangelizzata dal Nord Africa; sant’Agostino e Tertulliano sono algerini, così come altri santi e martiri della Chiesa maghrebina. Una presenza oggi minoritaria, ma molto vivace; prima di partire per un incontro in Francia, una signora mi ha pregato di porre questa domanda ai credenti che avrei intercettato: «Chieda perché le loro chiese sono spente». E non si riferiva a un problema elettrico.
Come vive la fede la minoranza cristiana, e quella cattolica in particolare?
Su una popolazione che sfiora i 35 milioni di abitanti, i cattolici sono circa 5 mila, per lo più stranieri in Algeria per motivi di lavoro, oppure studenti africani che poi tornano nel loro Paese: su 39 parrocchie in 3 diocesi (Orano, Costantina e Laghouat) e un’arcidiocesi, 4 o 5 sono frequentate soprattutto dagli universitari provenienti dall’Africa. Su 98 sacerdoti – 47 dei quali diocesani –, 57 operano nell’arcidiocesi di Algeri, insieme a circa 80 suore – la metà delle religiose presenti in Algeria – di 20 diversi istituti e a una decina di comunità maschili. Testimoniamo la fede senza provocare né mancare di rispetto. E tra la gente stanno avvenendo conversioni inspiegabili: in tanti vengono a chiedere il battesimo pur senza una predicazione esplicita del Vangelo; è un’opera dello Spirito Santo. Non solo: molti europei riscoprono la fede nella nostra Chiesa, dove si sentono accolti. Una catechista mi ha detto: «Fossi rimasta in Francia, sarei passata davanti al campanile cento volte e non mi avrebbe detto niente, invece qui ho capito il significato di questo simbolo». D’altra parte, un musulmano non può immaginare che un europeo sia senza Dio: per gli algerini, la religione è la prima cosa.
A parlare è la testimonianza…
Non c’è solo la parola per annunciare Cristo: ci sono le azioni, la presenza, spesso più efficace dell’evangelizzazione esplicita. Ad esempio, un sacerdote ha avviato il progetto Second chance per i ragazzi che hanno abbandonato la scuola: li ha accolti in casa sua, organizzando un corso di lingua francese, un altro sui rudimenti del computer… Risultato? Hanno ripreso gli studi. E non lo dimenticheranno mai, quindi non dimenticheranno mai Cristo. Nei paesi non incontro solo i parroci, ma anche i responsabili istituzionali, tutti musulmani; alcuni mi dicono di aver frequentato scuole cattoliche, da loro stimate per la buona formazione ricevuta. La gente si chiede perché suore e preti abbiano lasciato il proprio Paese e la famiglia, cosa li spinga a venire nel deserto per mettersi al suo servizio. In tanti chiedono la nostra presenza, rifiutano che noi lasciamo. Un sindaco di 87 anni, cresciuto all’asilo accanto a una suora, le dice: «Tu non partirai mai». Quando è passata in visita la madre generale, le ha fatto piacere sentire che i musulmani vogliono che le religiose restino. Noi rappresentiamo un’apertura di mentalità, qualcosa di gratuito e pacifico. Un politico locale, laico, mi ha riferito: «Non sono credente né non credente, ma difendo i cristiani per la libertà del mio Paese».
Lei proviene dal clero del patriarcato latino di Gerusalemme. Che relazione continua ad avere con la Terra Santa?
Un legame molto stretto: già lo è per qualsiasi battezzato, che non resta indifferente di fronte ai luoghi dov’è vissuto Gesù. E io mi sento profondamente figlio della mia terra: un rapporto affettivo, oltre che motivato dalla fede (sono nato nel paese del profeta sant’Elia), con la mia famiglia, i miei amici: li porto nel cuore. Poi quello che succede ai fratelli cristiani in Terra Santa mi interessa in modo speciale; continuo a collaborare con loro, per quanto mi è possibile.