Ieri mattina al Cairo è stato suggellato solennemente l’accordo della riconciliazione tra le fazioni palestinesi. Nasce un governo tecnico ad interim, che porterà gli elettori alle urne entro un anno per le presidenziali e il rinnovo del parlamento, se i patti verranno rispettati. Hamas esce dall'angolo e la cosa non piace affatto a Israele.
(Milano/g.s.) – Ultimo tremulo fiore della «primavera araba» di questo primo scorcio del 2011, ieri mattina al Cairo è sbocciato l’accordo tra le fazioni palestinesi. A sottoscriverlo oltre una decina di gruppi e movimenti, ma le firme che contano sono quelle di Fatah e Hamas, le due ali contrapposte – laica la prima, islamista l’altra – che lavorando insieme vorrebbero far spiccare il volo alla società palestinese.
Ai ferri corti dall’estate 2007 – quando gli uomini di Hamas, armi in pugno, estromisero i dirigenti di Fatah dalla Striscia di Gaza, assumendone il controllo – i due movimenti cercavano da tempo di ricomporre la frattura con i buoni uffici dell’Egitto di Mubarak. L’impresa è riuscita ora, sulla spinta di quel vento di cambiamento che soffia nei Paesi arabi e che ha spodestato l’anziano presidente egiziano.
La stampa riferisce che il testo firmato nei giorni scorsi non contiene novità rispetto alle bozze già messe sul tavolo nel 2010. Di nuovo c’è la volontà politica di giungere alla firma, mentre restano in campo tutti i dubbi circa la perseveranza necessaria al rispetto dei patti.
Se le parti dimostreranno di far sul serio, a giorni dovrebbe insediarsi un governo ad interim composto da ministri tecnici e presieduto da una personalità gradita, ma non organica, a Fatah e Hamas. Il suo compito primario sarà di portare gli elettori alle urne per le presidenziali e il rinnovo del parlamento di qui a 12 mesi. Nel frattempo viene scongelata l’assemblea legislativa eletta nel 2006, in seno alla quale Hamas detiene la maggioranza dei seggi.
Al Cairo ieri mattina c’erano Mahmoud Abbas (Abu Mazen), presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese e successore di Arafat alla testa di Fatah, e Khaled Meshaal, il leader politico di Hamas. Non si incontravano dal 2007 e pare che prima di presentarsi davanti alle telecamere per solennizzare l’accordo raggiunto tra i due ci siano state scintille per questioni protocollari (circa chi dovesse prendere la parola) ma anche sulle future scelte di politica estera.
Nel suo intervento pubblico Abu Mazen ha sottolineato che l’accordo chiude una pagina nera della storia palestinese e ribadito che Israele deve scegliere tra la pace e il continuo espandersi dei suoi insediamenti nei Territori Palestinesi.
Khaled Meshaal ha detto che l’unico antagonista è Israele e che «il nostro obiettivo è creare uno Stato palestinese libero e integralmente sovrano in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Uno Stato che abbia come capitale Gerusalemme, sia sgombro da coloni e non rinunci alla più piccola porzione di terra o al diritto al ritorno (dei profughi)». Una posizione irriducibile, che Israele non accetterà.
D’altronde, nei giorni scorsi il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu aveva esortato Abu Mazen a non concludere alcun accordo con Hamas. Ora che i giochi sono fatti, il governo di Israele ha interrotto il trasferimento all’Autorità Palestinese dei fondi che le competono perché derivanti dalla tassazione delle merci in transito. Per sbloccarli vuole garanzie che non finiscano nelle casse di Hamas, classificato come organizzazione terrorista da molti governi (inclusi Israele, gli Usa e i membri dell’Unione Europea).
Il governo palestinese in via di formazione perderà – è quasi certo – il primo ministro in carica Salam Fayyad, nell’ultimo biennio impegnato a costruire l’apparato statuale e ad ottenere per via diplomatica il riconoscimento internazionale dello Stato di Palestina. Il suo intento era di sfidare il veto Usa e l’opposizione israeliana e presentarsi in settembre all’Assemblea generale delle Nazioni Unite per chiedere all’organismo di pronunciarsi in merito. Una linea di condotta che troverà nuova conferma dopo gli accordi del Cairo?