Per il vescovo caldeo di Aleppo, mons. Antoine Audo, la comunità internazionale esagera la crisi in atto in Siria. Il gesuita, alla guida della diocesi dal 1992, ha espresso a Terrasanta.net le sue preoccupazioni in merito alle proteste, ma ha voluto sottolineare che la Siria non è l’Iraq e che il presidente Bashar al-Assad resta popolare, anche tra i cristiani.
(Milano) – Secondo il vescovo caldeo di Aleppo, mons. Antoine Audo, la comunità internazionale esagera la crisi in atto in Siria. Il gesuita, alla guida della diocesi dal 1992, nei giorni scorsi ha espresso a Terrasanta.net le sue preoccupazioni in merito alle proteste, ma ha voluto sottolineare che la Siria non è l’Iraq e che il presidente Bashar al-Assad resta popolare, anche tra i cristiani. Stando alle stime dell’Osservatorio siriano per i diritti umani, nelle prime sei settimane di dimostrazioni sono stati uccisi oltre 450 civili.
Eccellenza, qual è la situazione ad Aleppo, e quali sono le sue riflessioni su quanto sta accadendo in Siria?
Al momento la situazione ad Aleppo è calma e del tutto normale. In città la popolazione ha dimostrato grande saggezza. Non vuole la distruzione del Paese. Crediamo che le riforme siano possibili e che il presidente e il governo stiano lavorando in tal senso. Ci sorprende scoprire come i media internazionali esagerino la situazione. Questa non è informazione obiettiva, bensì manipolazione dell’informazione. In generale il popolo siriano è molto calmo. Comprende ciò che sta accadendo ed è in grado analizzare la situazione. Non vuole lo sconquasso del Paese, come è accaduto in Iraq o altrove.
Dunque secondo lei non possiamo paragonare quella siriana alla rivolta in Egitto?
No. La Siria è un Paese molto diverso. Le differenze sono parecchie. Qui c’è cultura, la gente è ben informata, anche se, certo, non mancano i problemi. Tutto finirà nel giro di pochi giorni, o almeno così speriamo.
Pensa che il presidente Assad resterà in sella?
Credo di sì. È un uomo molto amato, giovane e istruito, che lavora nell’interesse della Siria. Il nostro non è un Paese perfetto e come tutti gli altri siamo stati messi in difficoltà dalla situazione economica internazionale. Ma penso che lui stia facendo molto bene e difenda il nostro Paese con grande dignità.
Alcuni paragonano la Siria alla Libia e ritengono che potrebbe essere il prossimo teatro di un intervento militare internazionale. Le sembra plausibile?
Non penso proprio. Il paragone è difficile in termini di istruzione e apertura (mentale). Non conoscono bene la Siria. Come ho già detto, qui c’è una grande diversità etnica e religiosa. E poi è spiccato il senso di patriottismo. I siriani amano il proprio Paese. Noi non siamo una società basata sui clan tribali, come la Libia. Là, per esempio, non c’è praticamente una presenza cristiana (numericamente significativa). Qui i cristiani sono il 10 per cento della popolazione e stanno tutti dalla parte del presidente Assad. Quelli che manifestano vengono da fuori. Sono prezzolati e asserviti a interessi stranieri.
Le istanze islamiste rappresentano un rischio per il Paese?
Forse sì. È molto facile che altri gruppi manipolino i movimenti estremisti. Ma, come dicevo, il 90 per cento della popolazione ama il nostro presidente e sta con il governo, come ha sempre fatto negli ultimi 20-40 anni. In definitiva il giudizio sulla Siria può essere positivo: abbiamo università e un buon sistema di istruzione. Certo, il gran numero di giovani laureati in cerca di un’occupazione è un problema reale, ma di ordine economico. Credo che nei prossimi mesi ci lasceremo questo momento di crisi alle spalle.
Come la mettiamo con le notizie sulla repressione dei manifestanti da parte degli apparati di sicurezza?
Credo che sia una questione di autodifesa. Fino ad oggi non avevano attaccato nessuno, ma dopo aver sopportato per un mese l’assassinio di poliziotti e soldati e l’aggressione a istituzioni ufficiali, credo che la polizia avesse il diritto di entrare in azione e unicamente come autodifesa, non mossa dall’intento di attaccare o uccidere persone. Possiamo affermarlo con obiettività.
In ogni caso non sarebbe meglio rendere la Siria un Paese compiutamente democratico invece di reprimere con violenza le proteste?
Certo, ma questo richiede tempo. Ogni Paese ha la propria strada verso la democrazia. Dagli Stati Uniti abbiamo ascoltato molte parole su democrazia e libertà in Iraq, ma poi abbiamo visto bene gli esiti della democrazia e delle libertà americane in un Paese distrutto. E i primi a perderci sono stati i cristiani iracheni. Diciamolo chiaramente: non vogliamo che si ripeta anche in Siria quello che gli americani hanno combinato in Iraq.