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Fatah e Hamas ci riprovano

Giorgio Bernardelli
29 aprile 2011
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Fatah e Hamas ci riprovano
Il primo ministro dell'Autorità Palestinese Salam Fayyad. Sarai lui a pagare il prezzo della riconciliazione tra Fatah e Hamas?

Di annunci di accordi di riconciliazione tra Fatah e Hamas ne abbiamo sentiti parecchi in questi anni. E abbiamo visto tutti poi che fine hanno fatto. Viene spontaneo dunque chiedersi se quella di cui si parla tanto in queste ore sia davvero una svolta. E quanto pesi in questo nuovo scenario ciò che sta succedendo in Siria, con l’esercito che spara sui manifestanti.


Di annunci di accordi di riconciliazione tra Fatah e Hamas ne abbiamo sentiti parecchi in questi anni. E abbiamo visto tutti poi che fine hanno fatto. Viene spontaneo dunque chiedersi se quella di cui si parla tanto in queste ore sia davvero una svolta. E quanto pesi in questo nuovo scenario ciò che sta succedendo in Siria, con l’esercito che spara sui manifestanti.

Intanto bisogna premettere che i contorni dell’accordo annunciato mercoledì al Cairo sono ancora molto confusi. Basta leggere sull’agenzia palestinese Maan  le dichiarazioni degli esponenti di Fatah e di Hamas per capire che le due fazioni continuano a parlare lingue diverse. Del resto sarebbe stato sorprendente il contrario: a questo accordo Fatah e Hamas sono stati letteralmente trascinati da una serie di fattori. Il primo – probabilmente quello che ha contato di più – il fallimento del processo di pace nella versione Obama. Oggi da questo punto di vista sul tappeto non c’è più proprio nulla: non c’è un negoziato in corso, ma nemmeno una proposta della comunità internazionale su come affrontare l’attuale situazione di stallo. Ci si può davvero stupire, quindi, del fatto che i palestinesi guardino più alle questioni interne che al processo di pace?

Poi c’è quanto sta accadendo intorno, l’ondata di piazza che scuote tutto il Medio Oriente. Che in Palestina ha avuto il volto dei giovani scesi in piazza per chiedere la fine della divisione tra la Cisgiordania e Gaza. Una divisione innaturale, che il mondo ha preferito ignorare in questi anni, ma che per chiunque a Ramallah o a Khan Younis è sempre stato qualcosa di inaccettabile. I giovani palestinesi sono scesi in piazza chiedendo un quadro politico nuovo, che va ben oltre un accordo tra Fatah e Hamas e rimette in primo piano la questione della lotta non violenta contro l’occupazione israeliana.

«Il nostro primo passo – hanno scritto in queste ore sulla pagina Facebook di Gaza Youths Breaks Out – è stato porre fine alla divisione. Il nostro prossimo passo sarà utilizzare la non violenza per porre fine all’occupazione». Sono slogan che – come scrivevamo già qualche settimana fa – ricordano molto quelli della prima intifada, quella del 1987.

Ma sarebbe ingenuo non vedere che anche quanto sta accadendo in Siria ha avuto il suo peso in questa vicenda. Perché proprio a Damasco sta la leadership politica di Hamas, che quindi vede scricchiolare uno dei suoi maggiori protettori. Hamas non è più il movimento del 2006, non ha la stessa forza né in Cisgiordania né a Gaza. E infatti uno dei risultati di quest’accordo è depotenziare l’appuntamento delle elezioni municipali fissate per luglio, che (ammesso che si tengano lo stesso) sarebbero la prima occasione per verificare i rapporti di forza che esistono oggi tra le fazioni palestinesi.

Dunque l’accordo annunciato è un passaggio obbligato: era l’unica carta che Fatah e Hamas avevano per non farsi scavalcare dalla piazza. Adesso chi ci lascerà le penne sarà quasi certamente il premier Salam Fayyad e – francamente – non so se questa sia una buona notizia: sarà anche stato l’uomo di Washington, ma è stato il primo a operare sul serio perché la Palestina sia uno Stato vero e non uno slogan.

Comunque sia se questo accordo verrà davvero ratificato si gira pagina. Quello che deve essere, però, altrettanto chiaro è che la partita è appena all’inizio. Perché l’unità palestinese è ancora tutta da costruire e con le presenze ingombranti cresciute in questi anni all’ombra della guerra tra fazioni non sarà affatto facile da costruire. Del resto la disgregazione è il vero demone con cui deve fare i conti l’intera «primavera araba». Lo si vede molto bene in Siria dove nonostante le violenze dei militari di Assad la maggioranza della popolazione teme il salto nel buio se lui dovesse cadere. Ho trovato interessante a questo proposito la lettera che la comunità di Deir Mar Musa – il monastero siriano dove vive il gesuita Paolo Dall’Oglio – ha diffuso in occasione della Pasqua. «Tenuto conto delle forze e degli interessi in gioco – vi si legge -, l’unità nazionale si trova a rischio; e la perdita di tale unità costerebbe una lunga e sanguinosa guerra civile. Nostra convinzione è che una larga maggioranza di siriani si riconosca ancora in una sola e indivisibile comunità di civiltà. Resta da sperare che una più vasta libertà d’espressione riesca a rendere possibile un’ampia consultazione nazionale, l’unica capace di preparare un’alternativa non sanguinosa». È quanto tutti dovremmo avere a cuore; per Damasco ma anche per il resto del Medio Oriente.

Clicca qui per leggere le dichiarazioni sul sito di Maan

Clicca qui per leggere i commenti sulla pagina Facebook di Gaza Youth Breaks Out

Clicca qui per leggere la lettera da Deir Mar Musa

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