Cosa sa un cattolico medio italiano del rapporto che lo lega a un credente ebreo? Quanta presa ha fatto sulla Chiesa italiana il cambiamento di rotta impresso dal Concilio a una lunga storia di incomprensioni e odi antigiudaici da parte cattolica? Domande che sono all’origine del libro di Francesco Capretti La chiesa italiana e gli ebrei. Un'opera alla ricerca di risposte, necessariamente in chiaroscuro.
Cosa sa un cattolico medio italiano del rapporto che lo lega a un credente ebreo? Fino a che punto circola nella coscienza delle parrocchie e delle diocesi della Penisola la consapevolezza che il Nuovo Testamento non ha eliso l’Antico? E quanta riflessione dedicano le facoltà di teologia, i seminari e le case di formazione per religiosi al rapporto unico tra i cristiani e gli israeliti (di ieri e di oggi)?
In altre parole, quanta presa ha fatto sulla Chiesa italiana il paragrafo 4 della dichiarazione Nostra aetate, con il quale il concilio Vaticano II impresse un brusco cambiamento di rotta a una bimillenaria storia di incomprensioni e odi antigiudaici da parte cattolica?
Tutte domande che sono all’origine del lavoro d’indagine del teologo Francesco Capretti, sfociato in una tesi dottorale di cui il libro La chiesa italiana e gli ebrei (Editrice Emi, 2010) rappresenta una riduzione.
Scrive l’Autore nell’Introduzione: «Queste pagine sono un tentativo di aprire gli occhi, principalmente e primariamente a me, sulla Chiesa cattolica italiana e sul suo legame con l’ebraismo vivente che le è posto accanto. Ho cercato di evidenziare il cammino intrapreso in Italia dopo l’evento conciliare sino ad oggi. Dati che ancora restavano sparpagliati troveranno, forse, una loro prima collocazione e una loro prima lettura. O, quantomeno, sono stati sistematizzati a livello cronologico. Voglio ricordare immediatamente che questo lavoro è un inizio e come tale sicuramente deficitario. Ma è un tentativo, spero serio, di raccontare la nostra chiesa, le sue bellezze e le sue storture, i suoi slanci e il suo ritrarre la mano».
Cosa emerge dalla ricerca? In due parole lo dice Paolo De Benedetti nella sua Prefazione: «La Cei (Conferenza episcopale italiana – ndr) nel suo insieme è stata “spettatrice” più che protagonista nel rapporto cristiano-ebraico». Con altri termini lo ribadisce Piero Stefani, che firma la Postfazione al volume: «Pur essendoci stati in Italia gruppi e persone che hanno individuato la portata fondamentale della riflessione sul popolo d’Israele (che inizia sempre dall’ascolto della tradizione ebraica), il loro contributo è stato tanto marginale e parcellizzato quanto non recepito, in modo organico, in sede teologica e pastorale».
In effetti, spiega Capretti, riferendosi al cattolicesimo italiano, «se il tempo del dialogo con gli ebrei ha portato i suoi frutti, almeno dal punto di vista relazionale, sembra invece meno agevole vedere i frutti in ambito teologico, ecumenico, ecclesiologico, morale e pastorale» (p. 14).
Quanto ai contenuti, il libro svolge il tema cominciando con una riflessione di carattere teologico ed ecclesiologico sull’ultimo Concilio; sul grande dibattito ecclesiale che si è sviluppato intorno ad esso; sul processo di recezione; sulle differenti – per non dire contrapposte – ermeneutiche. Il percorso procede con una rapida disamina dei documenti di vari organismi della Santa Sede che negli ultimi decenni hanno messo a tema i rapporti con l’ebraismo prendendo le mosse dalla Nostra aetate. Poi si passa al versante Cei: in Italia, spiega l’Autore, la sensibilità verso il rapporto ebraico-cristiano incominciò a svilupparsi all’inizio degli anni Ottanta, sotto la presidenza del card. Anastasio Ballestrero, arcivescovo di Torino. Ma la strada percorsa non è lunga. Secondo Capretti, la riflessione ecclesiale italiana è rimasta deficitaria almeno su due questioni: il tema della terra (promessa) e quello di Israele come entità politica contemporanea.
E le singole diocesi che vie hanno imboccato? Il libro ne considera quattro: Verona, Milano, Firenze e Roma. Nell’intento di delineare il grado di maturazione avvenuto, vengono analizzati i testi elaborati dai sinodi diocesani celebrati in ciascuna di esse negli ultimi anni.
Lo sguardo di Capretti non si limita all’ufficialità ecclesiastica. Sarebbe impossibile trascurare le pionieristiche esperienze di gruppi e persone che hanno offerto un contributo determinante alle relazioni ebrei-cattolici su scala nazionale. Un congruo numero di pagine è poi dedicato al ruolo che l’editoria cattolica ha svolto nel diffondere gli studi biblici e la conoscenza dell’interpretazione giudaica delle Scritture.
Nell’Epilogo l’Autore tira le somme: «La storia di questi anni ha testimoniato che certe procedure del dialogo hanno esaurito la loro forza, anche per il venir meno dei pionieri. Le attuali forme, mantenute a volte con lodevole impegno e con fatica, non sembrano costituire ormai se non una flebile voce, senza quella necessaria ricaduta nella base ecclesiale, che resta il vero problema da risolvere». (p. 253).
Quali vie imboccare? Capretti ne propone due, strettamente correlate: la creazione di una scuola di pensiero italiana sul rapporto Chiesa-ebraismo che possa far capo a un centro accademico ben determinato e la pubblicazione di un’autorevole rivista specializzata.