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Nuovo Sepolcro, il sogno infranto

Giuseppe Caffulli
14 marzo 2011
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Nuovo Sepolcro, il sogno infranto
La basilica del Santo Sepolcro ideata dagli architetti Antonio Barluzzi e Luigi Marangoni sessant'anni fa.

«Sembrerà forse strano che qualcuno da Gerusalemme, martoriata e insanguinata dalla guerra, di fronte alla miseria impressionante di centinaia di migliaia di abitanti della Palestina, strappati dalle loro case e costretti a vivere sotto le tende con gli aiuti della carità, siasi maturata l’idea di richiamare con questo libro la pietosa attenzione di tutti i cristiani sopra la chiesa più venerata del mondo, la Basilica del Santo Sepolcro, di cui questo anno ricorre l’ottavo centenario della consacrazione, avvenuta il 15 luglio 1149».

Inizia con queste parole la Prefazione di mons. Gustavo Testa al volume Il Santo Sepolcro di Gerusalemme. Splendori, miserie, speranze, stampato a Bergamo dall’Istituto italiano di arti grafiche nel maggio 1949. Fin dalla copertina, un particolare non può non colpire il lettore: il disegno di una imponente basilica piantata nel cuore della città vecchia di Gerusalemme, con quattro campanili arabeggianti che svettano verso il cielo.

Abbiamo ricordato nel numero di ottobre-novembre 2010 i cinquant’anni dalla morte di Antonio Barluzzi, l’architetto che con la sua opera ha lasciato un segno profondissimo in Terra Santa, progettando e realizzando alcuni importanti santuari. Il volume di cui parliamo, presenta uno dei progetti più ambiziosi e mai realizzati dal Barluzzi, insieme al collega Luigi Marangoni: la nuova basilica del Santo Sepolcro di Gerusalemme, un grande spazio sacro capace di garantire la presenza delle confessioni cristiane attorno alla tomba vuota del Cristo, sul modello dell’antica basilica costantiniana.

Lasciamo ad altri il compito di studiare il progetto (e il suo impatto sulla città, che a noi oggi sembra decisamente abnorme) dal punto di vista architettonico. Sarà sicuramente un tassello importante in un futuro studio sulla figura e l’opera del Barluzzi «architetto di Terra Santa».

Quello che ci sembra interessante qui rievocare è piuttosto la genesi del progetto, e la figura del suo principale sostenitore: mons. Gustavo Testa, delegato apostolico in Palestina e reggente (fino alla nomina di mons. Alberto Gori) del patriarcato latino di Gerusalemme.

Nato a Boltiere, diocesi di Bergamo, il 28 luglio 1886, Gustavo Testa fu delegato apostolico in Egitto dal 1934 al 1948. Al suo arrivo a Gerusalemme, nel 1948, dovette assumersi anche la reggenza del patriarcato, la cui sede era vacante a causa della morte di monsignor Luigi Barlassina nel settembre del 1947. A Gerusalemme Testa restò fino al 1953, quando venne nominato nunzio apostolico in Svizzera. Papa Giovanni XXIII lo creò cardinale nel concistoro del 14 dicembre 1959.

La nuova basilica del Santo Sepolcro, il cui progetto risale a un decennio prima, è un tema che sta molto a cuore al delegato apostolico: «Il venerando monumento provato dai recenti terremoti, è una minacciante rovina; è tutto sostenuto da puntelli, meno efficaci forse dei contrastanti muri degli edifici, che via via sono stati costruiti nei secoli tutto all’intorno, dandogli un fosco aspetto di fortilizio».

E allora, come intervenire? Perché, invece di proseguire con dispendiose opere di restauro – si chiede il Testa – non si prende in considerazione l’idea di salvare ciò che è storicamente rilevante e di edificare una nuova, moderna basilica? Al delegato apostolico non possono certo sfuggire le difficoltà legate allo statu quo e ai rapporti spesso difficili di convivenza tra le confessioni cristiane al Sepolcro. Monsignor Testa, a dispetto di quanto la storia ha testimoniato in centinaia d’anni di dispute, si dimostra oltremodo ottimista circa un accordo per il nuovo tempio. «Sarà mai possibile disperare di noi stessi? Non si può, nel rispetto che tutti abbiamo verso il Sepolcro di Nostro Signore, accordarci per venerarlo meglio e permettere alla pietà dei rispettivi fedeli di effondersi liberamente e tranquillamente?». Il Testa è convinto ovviamente di sì: «il pesante regime della veccia Turchia» è passato e sembra essersi aperto un «clima di pace e di mutua comprensione». In questo quadro il delegato arriva a proporre una vera e propria road map in otto punti che porti le varie comunità religiose ad un accordo (anche economico) sulla realizzazione del nuovo Sepolcro. «Ecco come un sogno può diventare realtà; ecco come i cristiani potrebbero onorare degnamente la Tomba di Nostro Signore», chiosava il delegato apostolico.

Che il «sogno» di mons. Testa non sia diventato realtà è oggi sotto gli occhi di tutti. La vecchia basilica della Risurrezione è ancora là, con il suo carico di storia e di conflitti, nel cuore della Gerusalemme vecchia.

Del progetto parlò diffusamente la nostra rivista La Terra Santa nel numero di ottobre 1950. Era l’Anno Santo, e il progetto venne presentato anche a Roma, in occasione della Mostra di Arte sacra. La vicenda ebbe un eco anche sulla stampa: ne parkarono la Civiltà Cattolica, la rivista della Cattolica Vita e pensiero. Addirittura il Corriere della Sera, con un titolo malizioso: «Avrà quattro minareti il restaurato Santo Sepolcro?».

Tra le altre considerazioni, il giornale milanese, a firma di Silvio Negro, annotava: «Siamo abituati a vedere madonne cinesi e altari della Papuasia, ma minareti non si erano mai visti in una mostra d’arte cristiana». Troppo esotico il nuovo Sepolcro di Barluzzi e Marangoni? Troppo ardito il sogno di mons. Testa? Troppo complicato mettere d’accordo le confessioni cristiane separate da secoli di statu quo? Quel che è certo è che il mondo stava cambiando in fretta. Finita la seconda guerra mondiale, in Medio Oriente si era da poco affacciata la realtà del nuovo Stato d’Israele e i venti di guerra soffiavano sulla Terra Santa e il Medio Oriente. Forse anche per questa instabilità politica del progetto dell’imponente nuova basilica non se ne fece più nulla.

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