«Tutti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno» (Atti degli apostoli 2, 44-45). Così i primi cristiani, in Gerusalemme. Poi tutto cambia. Ma non per tutti. La regola della vita comune non viene persa di vista. La mantengono i religiosi, e rispunta attualmente anche in nuove «famiglie ecclesiali». Ma quanto è sempre fragile questa pianta!
Un aspetto della sua fragilità lo si vede ora nella privatizzazione di tanti kibbutzim israeliani, eredi di un altro celebre impegno di vita comune dalla storia centenaria. Anche il kibbutz mirava ad una vita fraterna, compiutamente comune. Segnato dall’analisi marxiana del capitalismo, il kibbutz rifiutava anzitutto il «parassitismo» inerente allo sfruttamento del «valore aggiunto» dell’altrui lavoro; il collettivo non doveva sostenersi che dal frutto delle fatiche dei propri membri. Come nei monasteri, la vita nel kibbutz si svolgeva interamente in comune. I pasti si prendevano in comune, nel refettorio, e in comune pure, nella sala di ricreazione, ci si vedeva, si conversava, si leggevano giornali e riviste, si ascoltava la radio… Ad ogni membro era richiesto di conferire al lavoro comune quanto poteva, secondo l’ «obbedienza» datagli dal «capitolo», e a ciascuno si assicurava quanto occorreva – «da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo il suo bisogno» – sulla base di una rigorosa eguaglianza.
Lo scivolamento verso l’individualismo – si dice – sarebbe cominciato con la caffettiera. E che male c’è se il kibbutznik, la mattina presto, si fa subito il caffè da solo, in camera, prima di uscire nei campi? E se poi magari vi aggiunge anche una fetta di pane, e – su! – un poco di formaggio? Così non avverte più il bisogno di raggiungere i compagni nel refettorio, per la prima colazione. E se non è peccato mortale, che male c’è se nella propria abitazione tiene un piccolo frigorifero, per il formaggio, e un tostatore per il pane? E già che c’è, che male fa se, stanchissimo dopo la giornata di lavoro, il kibbutznik non esce più la sera per cenare in refettorio, ma si fa da mangiare da sé in quella che oramai è divenuta una piccola cucina tutta per lui? Che male c’è, in fondo, se per accompagnare questi piccoli pasti, si procura anche una radio (e più tardi, una televisione)? Poi, una volta che si è dotato di questi congegni moderni, non avrà più bisogno di frequentare la comune ricreazione per sentire le notizie… Seguiranno altri attrezzi, dal computer all’autovettura, che non si possono certo fornire a tutti egualmente, pena la bancarotta del kibbutz. Da lì a decidere di non dover più osservare un egalitarismo conservatore, e di doversi ammodernare tenendo conto anche (o soprattutto) del merito, il passo è breve. Non è forse vero che il manager di successo, o il genio dell’hi-tech, debba vedersi riconosciuto più di quanto non sia dato all’anziano giardiniere (che degli i-Pad non se ne intende proprio)? Ma dove siamo rimasti? A cent’anni fa?
Lungo la strada era già andato perduto l’ideale di vivere solo del proprio lavoro, con l’assunzione del primo operaio «estraneo» al kibbutz impiegato nella catena di produzione della nuova fabbrica (ma che male c’è se si dà lavoro a chi ne ha bisogno? ditemi!).
È un piano inclinato, un susseguirsi di tanti piccoli, forse impercettibili cedimenti, che solo sommati l’un l’altro si rivelano mortali. Come il peccato.