Storie, attualità e archeologia dal Medio Oriente e dal mondo della Bibbia

Piccoli segni per sperare

Giorgio Bernardelli
11 febbraio 2011
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C'è un Medio Oriente che in queste ore ribolle: nel momento in cui scrivo non è ancora chiaro come andranno a finire le cose in Egitto. Eppure scorrendo oggi i siti dei quotidiani del Medio Oriente sono rimasto colpito da due notizie positive. Due fatti piccoli, che non faranno mai titolo al telegiornale, ma che vi propongo.


Lo so, sono un’inguaribile ottimista. C’è un Medio Oriente che in queste ore ribolle: nel momento in cui scrivo non è ancora chiaro come andranno a finire le cose in Egitto. E la solita retorica del presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad non promette nulla di buono. Eppure scorrendo oggi i siti dei quotidiani del Medio Oriente sono rimasto colpito da due notizie positive. Due fatti piccoli, che non faranno mai titolo al telegiornale. Ma sono queste storie a permettrci di mantenere accesa la speranza per questa regione del mondo così travagliata.

La prima notizia è altamente simbolica: l’esercito israeliano ha annunciato che la prossima settimana sarà rimosso il check-point di Hawara, quello che si trova subito fuori dalla città di Nablus. Solo gli ingenui potrebbero pensare che questa mossa risolverà definitivamente il problema delle limitazioni alla libertà di movimento dei palestinesi in Cisgiordania. Però con Hawara sparirà un simbolo importane degli anni della seconda intifada: questo check-point, infatti, sbarrava l’unica via d’accesso alla grande città del nord della Cisgiordania (l’antica Sichem). Per cui Hawara chiuso era sinonimo di assedio per decine di migliaia di persone. C’è una lunga letteratura palestinese sulle strade più improbabili percorse per uscire da Nablus quando l’esercito israeliano decretava il blocco di quel check-point. Ma Hawara è legato anche a memorie dolorose: quella delle immagini choc del ragazzo palestinese di dodici anni scoperto con una cintura di esplosivo addosso nel 2004. Ma anche quella delle tante ambulanze con a bordo malati di Nablus (città priva di ospedale) che – come si legge nelle denunce di Physicians for Human Rights, l’associazione israeliana dei medici per i diritti umani – non venivano lasciate passare durante i blocchi.

Ora, dunque, almeno Hawara sparisce e questo renderà più agevoli gli spostamenti tra Nablus e Ramallah. Che comunque erano già diventati parecchio più facili, perché Nablus è la città su cui l’Autorità Nazionale Palestinese di Abu Mazen e Salaam Fayyad ha investito di più negli ultim anni in termini di controllo del territorio da parte della polizia palestinese. Lo raccontava molto bene alcuni mesi fa un reportage del New York Times che rilanciamo qui sotto: Nablus oggi è una città in piena crescita, modello di quello che potrebbe diventare la Palestina in un contesto vero di pace. La rimozione di Hawara è dunque un bel test, anche perché arriva contemporaneamente a un altro fatto altrettanto simbolico: la ricostruzione della Tomba di Giuseppe, fortissimamente voluta dai coloni israeliani. L’hanno inaugurata proprio pochi giorni fa tre ministri del governo Netanyahu. E anche questo è un fatto emotivamente importante perché la distruzione della Tomba di Giuseppe a Sichem/Nablus fu uno dei primi gesti violenti della seconda intifada: un oltraggio gravissimo a un luogo santo venerato da sempre dagli ebrei. Ecco perché – probabilmente – la rimozione del check-point e la riapertura della Tomba di Giuseppe vanno visti insieme. Sono un unico tentativo di ritorno alla normalità; non senza insidie (infatti i coloni strepitano già sulla rimozione di Hawara e dall’altra parte c’è chi guarda in cagnesco lo spiegamento di soldati israeliani intorno alla Tomba di Giuseppe), eppure molto importante. Perché è solo su equilibri di questo genere che – domani, tra dieci anni o tra un secolo – si potrà un giorno arrivare alla pace in Medio Oriente.

In questo quadro si inserisce bene – allora – anche la seconda buona notizia del giorno: il fatto che per la prima volta una donna ebrea israeliana abbia dato alla luce un figlio nell’ospedale di Ramallah. Non era mai successo in precedenza ed è un fatto dovuto a un’emergenza. La donna infatti – che si chiama Nisreen, è sposata con un arabo e convertita all’islam, ma comunque cittadina di Israele a tutti gli effetti – è stata colta dalle doglie mentre si trovava in Cisgiordania e ha partorito senza problemi. I genitori hanno deciso di chiamare il figlio Omri, un nome che esiste sia in arabo sia in ebraico. Sì, forse – nonostante tutto – se succedono cose di questo genere anche in queste ore convulse si può davvero continuare a sperare.

Clicca qui per leggere la notizia sul check-point di Hawara

Clicca qui per leggere il reportage da Nablus pubblicato nel novembre scorso dal New York Times

Clicca qui per leggere la notizia sulla riapertura della Tomba di Giuseppe

Clicca qui per leggere la notizia riportata da Maan

 

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