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La lezione dei Giusti

Giorgio Bernardelli
26 gennaio 2011
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La lezione dei Giusti
Uno scorcio del giardino dei «Giusti fra le nazioni» del memoriale Yad Vashem, a Gerusalemme.

Li abbiamo scoperti attraverso la storia raccontata da Steven Spielberg nel film Schindler’s List. Quella che si chiudeva, appunto, con la grande frase tratta dal Talmud – «Chi salva una vita salva il mondo intero» – che è la loro definizione più bella. Ma chi sono davvero i Giusti tra le nazioni, quelle figure cioè che durante la grande tragedia della Shoah, mentre infuriava la persecuzione nazista, si diedero da fare per salvare gli ebrei? E sulla base di che cosa viene conferita questa onorificenza, l’unica ufficiale dallo Stato di Israele?

Quando si parla dei Giusti il pensiero va immediatamente agli alberi con i loro nomi che – nel complesso dello Yad Vashem, il luogo che a Gerusalemme ricorda la tragedia dell’Olocausto – si incontrano nel giardino che porta al museo. Un’immagine indubbiamente poetica. «A costoro io darò nella mia casa e fra le mie mura un luogo del ricordo e un nome (yad vashem) che non sarà mai cancellato e dimenticato», recita il versetto del profeta Isaia cui questo luogo di Gerusalemme si ispira. C’è, però, un rischio: quello di non cogliere fino in fondo la meticolosità della ricerca che sta dietro a ciascuno di quei nomi. Dal 1953 – l’anno in cui fu istituito lo Yad Vashem – l’istituto di ricerca storica che qui ha sede, infatti, lavora per dare un nome non solo a tutti i sei milioni di vittime della Shoah, ma anche a tutti quei non ebrei che misero a repentaglio la propria vita per salvare quella di alcuni ebrei.

Rischiarono del proprio: è il primo elemento importante da tenere presente se si vuole capire davvero chi sono i Giusti per lo Yad Vashem. Non sono tutti quelli che negli anni della persecuzione nazista hanno aiutato gli ebrei. Sono – molto più specificamente – quelli che lo hanno fatto affrontando dei rischi concreti (e infatti tra i Giusti ce ne sono parecchi che pagarono con la propria vita questo atto di solidarietà) e senza chiedere nulla in cambio. Sono dunque criteri molto rigidi quelli imposti dalla legge che ha istituito questa onorificenza. Ed è un titolo che arriva solo dopo un lungo esame compiuto da quello che Gabriele Nissim – nel titolo del bellissimo libro dedicato a Moseh Bejski, l’ebreo salvato da Schindler che per tanti anni è stato l’anima di questa impresa – ha definito «il tribunale del bene». Ad assegnare l’onorificenza è infatti una commissione cui possono rivolgersi tutti: molte volte sono le famiglie di quanti furono salvati a far arrivare a Gerusalemme una segnalazione; altre sono i candidati Giusti stessi o i loro congiunti; altre volte ancora semplici persone che sono venute a conoscenza di fatti relativi agli anni della grande persecuzione. Ogni segnalazione è esaminata con molta meticolosità: se non c’è una testimonianza diretta di una persona salvata occorrono comunque delle prove documentali; nemmeno la testimonianza di un figlio di sopravvissuti da sola basta.

«Lavoriamo in tre sottocommissioni, ciascuna composta da una decina di membri – ci spiega nel suo ufficio colmo di fascicoli allo Yad Vashem la professoressa Irena Steinfeldt, che oggi dirige il Dipartimento dei Giusti -. Per la maggior parte si tratta di sopravvissuti alla Shoah, ma all’interno ci sono anche persone impegnate nelle istituzioni commemorative. Parlano diciassette lingue diverse; ciascuno conosce in maniera specifica una particolare nazione e le circostanze che in quel Paese hanno contraddistinto l’Olocausto. E soprattutto sono in grado di leggere sempre i documenti nella lingua originale e non sulle traduzioni».

Attualmente sono complessivamente quasi 24 mila i Giusti tra le nazioni riconosciuti dallo Yad Vashem. Si tratta – però – di un numero in continuo divenire: ogni anno sono tra i 400 e i 500 quelli nuovi a cui è assegnata l’onorificenza. Il 2010, ad esempio, è stato l’anno in cui sono salite a 45 le nazionalità dei Giusti: in maggio – infatti – il titolo è stato assegnato postumo (come ormai quasi sempre oggi accade) a José Arturo Castellanos che fu console generale del Salvador a Ginevra tra il 1941 e il 1945 e fornì migliaia di passaporti del suo Paese a ebrei dell’Est Europa.

Nella graduatoria dei Paesi di provenienza dei Giusti al primo posto c’è la Polonia con circa 6.200 nomi (ma va comunque ricordato che gli ebrei polacchi sono anche quelli che hanno pagato il prezzo più alto nei campi di sterminio). Seguono l’Olanda (circa 5 mila) e la Francia (quasi 3.200). Anche Paesi come il Vietnam, il Giappone, la Cina o il Cile possono contare almeno una di queste figure. E poi c’è il caso molto particolare dei Giusti di fede musulmana: una settantina in tutto, provenienti da Albania, Bosnia e Turchia (ma ancora da nessun Paese arabo, avendo l’istituto nel 2009 negato l’onorificenza al tunisino Khaled Abdelwahab, non perché non abbia aiutato degli ebrei ma perché secondo i membri della commissione non avrebbe corso rischi nel farlo).

L’Italia è ormai vicina a quota 500 e il dato interessante è che si tratta di un numero in rapida crescita: basti pensare al fatto che quando nel 2005 fu pubblicato il volume I Giusti d’Italia – il volume curato da Liliana Picciotto per Mondadori in cui sono raccolti tutti i profili dei nostri connazionali onorati dallo Yad Vashem – i Giusti italiani erano solo 387. Dietro a questa crescita c’è un impegno preciso portato avanti in questi anni dal Centro di documentazione ebraica contemporanea (Cdec). «Abbiamo promosso una specifica ricerca sulla sopravvivenza degli ebrei in Italia nel 1943-1945 e sul soccorso portato dalla popolazione civile, con la realizzazione anche di video-interviste – ha spiegato durante un convegno proprio Liliana Picciotto -. Il nostro obiettivo è arrivare a ricostruire le storie di almeno il 20 per cento degli ebrei che si sono salvati e che sono almeno 6.600».

Sempre riguardo agli italiani vale la pena di ricordare che il primo nostro connazionale a cui venne assegnato il titolo di Giusto tra le nazioni fu nel febbraio 1964 don Arrigo Beccari, il parroco di Nonantola (Modena), che salvò un centinaio di ragazzi ebrei. Tra i più recenti – invece – figurano i coniugi Ostilio e Fernanda Righi di Roma, la signora Carlotta Rizzetto di Biella e i coniugi Lorenzo e Antonietta Lorenzini di Volterra. Queste cinque onorificenze risalgono tutte al novembre 2010 e sono state consegnate con cerimonie svolte in Italia dall’ambasciata di Israele.

Che cosa viene consegnato ai Giusti tra le nazioni? Materialmente l’onorificenza consiste in un diploma e una medaglia, su cui – oltre alla già citata frase del Talmud – compaiono le parole «Un segno di gratitudine da parte del popolo ebraico». Ogni Giusto diventa automaticamente cittadino onorario di Israele. Quanto agli alberi va precisato che oggi ormai allo Yad Vashem il giardino è diventato un simbolo: non ci sarebbe sufficiente spazio per onorare tutti in questo modo. Esiste però una grande parete su cui vengono aggiunti di volta in volta tutti i nuovi nomi.

Al di là delle procedure, qual è il significato di questa ricerca che continua a ormai quasi settant’anni di distanza? «Quando ho assunto questo incarico – ci risponde ancora Irena Steinfeldt – tra le persone che conoscevo ho incontrato due reazioni opposte. Qualcuno mi ha detto: “Oh, bellissimo. Dopo esserti occupata di tante cose orribili riguardo all’Olocausto finalmente potrai occuparti di storie meravigliose”. Al contrario una persona che da tanti anni accompagna i gruppi ad Auschwitz e lavora sul tema della memoria, mi ha guardata e mi ha detto: “Nessuno ha provato a salvare me”. È vero, molte storie sono meravigliose. Ma ciò non deve farci dimenticare che resta un volto di una grande tragedia».

«L’esperienza dei Giusti – continua la Steinfeldt – dice che in ogni situazione qualsiasi persona può fare la differenza. Ed è una grande lezione il fatto che il popolo ebraico abbia sentito il bisogno di non rispondere con la vendetta, ma facendo distinzioni. Detto questo, però, dobbiamo anche chiederci: perché i Giusti non furono di più? In qualche modo sono stati l’estremo del bene. Ma che cosa ha reso tutti gli altri così indifferenti all’ingiustizia? La lezione vera non è coltivare il culto di nuovi eroi, ma educare tutti a essere più sensibili alle tragedie degli altri».

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