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Il fattore Guyana

Giorgio Bernardelli
14 gennaio 2011
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Il piccolo Paese latino americano della Guyana è il settimo Stato di quell'area del mondo che in queste ultime settimane ha deciso di riconoscere ufficialmente lo Stato palestinese. Che cosa sta succedendo? Si tratta di atti politici che possono sul serio lasciare il segno in Medio Oriente?


È davvero un po’ difficile immaginare che il futuro politico del Medio Oriente possa dipendere dalle scelte della Guyana. Ma la prospettiva forse cambia un po’ se si tiene presente che il piccolo Paese latino americano è il settimo Stato di quell’area del mondo che in queste ultime settimane ha deciso di riconoscere ufficialmente lo Stato palestinese. Prima della Guyana c’erano stati infatti l’Ecuador, la Bolivia, il Brasile, il Cile, l’Argentina e il Venezuela e l’Uruguay ha già detto che si aggiungerà presto al gruppo.

Che cosa sta succedendo? E si tratta di atti politici che possono sul serio lasciare il segno in Medio Oriente? Quest’ondata di riconoscimenti dello Stato palestinese è evidentemente un effetto dell’ennesimo punto morto a cui è arrivato il negoziato di pace. Lo spiega senza mezzi termini il ministro degli Esteri dell’Autorità Nazionale Palestinese Riad Malki in un’intervista che ha rilasciato sull’argomento al sito bitterlemons.org. Vale la pena ricordare che questi non sono i primi riconoscimenti internazionali dello Stato palestinese: già nel 1988, quando Arafat da Tunisi lo proclamò una prima volta, quasi tutti i Paesi dell’Africa e dell’Asia lo riconobbero (molti Paesi occidentali, invece, scelsero la strada di riconoscere come interlocutore l’Olp). Come tutti sappiamo, alla fine, tutte queste manovre non portarono a nulla. Ma stavolta ci sono due fatti nuovi. Intanto sono tutti Paesi dell’America Latina, cioè di una parte del mondo che fino a poco tempo fa all’Onu tendeva a schierarsi con più facilità dalla parte di Israele che con la Palestina. Sono ormai usciti dall’orbita degli Stati Uniti e c’è chi, come il Brasile, ambisce a giocare un ruolo da protagonista nella politica internazionale. L’altra novità è che questi riconoscimenti arrivano con l’approssimarsi dell’estate 2011, il termine che si era dato il premier Fayyad per il rafforzamento dal basso delle istituzioni palestinesi. E gli effetti di questo sforzo iniziato nell’estate 2009 in Cisgiordania si vedono: la polizia dell’Anp controlla il territorio, l’economia cresce, persino il progetto-sfida di Rawabi, la nuova grande città da costruire indipendentemente da quello che pensano gli israeliani, sta avanzando. Fayyad ha sempre detto che nell’estate 2011 – israeliani o non israeliani – lo Stato palestinese sarà realtà. Dunque ci sono tutte le condizioni perché tra qualche mese ci sia una nuova proclamazione di indipendenza. Per molti versi ancora simbolica, è vero, ma comunque ben diversa da quella del 1988. E di fronte a un fatto del genere la questione non potrà non finire davanti al Consiglio di sicurezza dell’Onu.

Siamo dunque già entrati nello scenario successivo a quello del processo di pace come l’abbiamo conosciuto finora? Ad auspicarlo – sempre su bitterlemons.org – è Shlomo Ben-Ami, protagonista israeliano del negoziato nell’era Rabin e ministro degli Esteri nell’ultimo governo Barak. Ben-Ami è da sempre un sostenitore dell’internazionalizzazione del negoziato: non c’è altra strada – spiega – per fare davvero un passo avanti. Ma anche un altro analista israeliano solitamente molto più cauto come Yossi Alpher sostiene che, comunque sia, Israele farebbe bene a non limitarsi a protestare per questa ondata di riconoscimenti; dovrebbe piuttosto cercare di giocare bene le sue carte in questo nuovo quadro. E invece – grazie anche alle performance del suo ministro degli Esteri Avigdor Lieberman – si trova ad affrontare questa fase in una condizione di isolamento internazionale senza precedenti.

E Washington? L’idea di ritrovarsi tra qualche mese in Consiglio di sicurezza a discutere di una dichiarazione unilaterale di indipendenza da parte della Palestina è un vero e proprio incubo per l’amministrazione Obama. Però il fallimento dell’ipotesi del negoziato diretto tra Netanyahu e Abu Mazen è sotto gli occhi di tutti. E allora alla Casa Bianca sembra riprendere quota l’ipotesi dell’ultima carta a disposizione: quel Piano di pace americano di cui si è già parlato tante volte. Yediot Ahronot cita oggi le indiscrezioni di Politico: il sito cult degli osservatori di quanto si muove intorno ai palazzi di Washington parla infatti di un susseguirsi di vertici in questi giorni con la presenza di diplomatici di lungo corso che hanno avuto a che fare negli ultimi vent’anni con il conflitto israelo-palestinese. E cita le parole dell’ex ambasciatore degli Stati Uniti in Israele David Kurtzer: se israeliani e palestinesi non si mettono d’accordo non abbiamo alternative, gli Stati Uniti devono presentare una loro iniziativa. Dieci anni dopo i Parametri di Bill Clinton, stanno davvero per arrivare quelli di Barack Obama?

Clicca qui per leggere sul sito di Haaretz la notizia sulla Guyana

Clicca qui per leggere le analisi di Riad Malki, Yossi Alpher e Shlomo Ben-Ami su bitterlemons.org

Clicca qui per leggere la notizia sul Piano americano rilanciata da Yediot Ahronot

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