Dopo i massacri di Baghdad, numerosi cristiani continuano a giungere a Istanbul in attesa di un visto per l’Occidente. Pur non potendo dimenticare che anche i musulmani fuggono dalla violenza, i cristiani hanno motivi ancora maggiori per lasciare la terra dei loro antenati. Ma la Chiesa non può accontentarsi di farsi prossima a coloro che cercano una nuova terra. Ancora di più è necessario occuparsi di quegli uomini e di quelle donne che, volontariamente o meno, scelgono di rimanere nelle loro case, in Iraq e altrove. Bisogna tentare ogni strada per ritessere i fili dell’incontro tra islam e Occidente.
Questo ragionamento non possiamo pretenderlo da coloro che, sul campo, non potendo più sopportare la situazione, sono stati costretti a fuggire. Ma i cristiani delle retrovie non devono essere «artigiani della disperazione». Piuttosto sono chiamati, per vocazione evangelica, a costruire la pace.
Come? Difficilmente la soluzione si trova nella legge del taglione. Piangere con coloro che piangono è una necessità, ma fare tutto il possibile perché la violenza abbia a finire è decisamente più utile. Gridare contro i carnefici può portare sollievo, ma lanciare accuse generiche contro tutto un Paese, un’etnia o una religione non risolve nulla. Al contrario. I politici possono decidere di adottare una linea dura per aiutare a trovare una via d’uscita, ma la verità è che ogni giorno facciamo esperienza di guerre interminabili, e che nulla si risolve con il ricorso alle armi. I Papi rimangono del tutto inascoltati quando parlano di dialogo e di pace. Eppure un dialogo attraverso la violenza non esiste, e neppure un dialogo attraverso la paura, che è pure una pessima consigliera.
I preliminari di un vero dialogo possono essere il rifiuto di seguire coloro che spingono per una vendetta immediata, la calma e l’autocontrollo davanti alle provocazioni del nemico.
Il dialogo è un sogno inaccessibile, dicono alcuni. E hanno ragione, se prendono il dialogo per un albero quando invece questo è un frutto, il frutto dell’incontro. Come le riconciliazioni in Africa avvengono sotto l’arbre à palabre (l’albero delle discussioni), il dialogo si realizza durante e dopo l’incontro, mai senza di esso. Quando mi dicono: «Vedete dove porta il vostro dialogo!», rispondo: «Io non dialogo, io incontro». Sì, cerco di incontrare con la speranza cristiana che altri raccoglieranno la pace, questa pace che ricevo già in cambio nella comunione dell’amicizia.
Dove porta, diversamente, il desiderio di rispondere «occhio per occhio, dente per dente», se non a una violenza che si rinnova di continuo? Rispondere all’odio con l’odio, vivere nel rancore e sbarrare le porte, è davvero una concreta possibilità di soluzione dei problemi?
Una cosa è certa: «Occhio per occhio, dente per dente» ci conduce lontani dal Vangelo. Quest’ultimo non è un abito della festa, ma un abito da lavoro per trasformare un mondo che non crede più nella fraternità. Il Vangelo è lo strumento di quegli uomini e di quelle donne che non vogliono far crescere la Babele delle offese assassine. È la passione perseverante ed eroica di coloro che non sono sprofondati nell’odio omicida vedendo i loro cari venir meno, ma che cercano le vie della riconciliazione. Sta a noi seguirli lungo questa loro via crucis, che è anche un cammino verso la Pasqua.
«Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio».
(traduzione di Roberto Orlandi)